«Ingrid e io ci incontrammo per caso nel tardo autunno del 1957. Nacque un’amicizia che si tramutò in una relazione durata fino all’estate del 1969. Sia io che Ingrid eravamo sposati. Nella primavera del 1959 venne alla luce nostra figlia Maria.» Nel 1971 Bergman e Ingrid von Rosen cominciano una nuova vita insieme: sarà un matrimonio felice, «ventiquattro bellissimi anni» di assoluta simbiosi, una continua «silenziosa conversazione interiore», drammaticamente interrotta quando, nell’autunno del 1994, Ingrid scopre di avere un cancro allo stomaco. Nel diario che Bergman, Ingrid e Maria scrivono ogni giorno per sette mesi, assistendo impotenti al progredire della malattia, ognuno cerca di capire che cosa stia succedendo, quali brecce di vulnerabilità la sofferenza scava in loro e nei loro rapporti e a quali difese appigliarsi nel disgregarsi del loro mondo. Una ricerca ostinata di routine, un accanito concentrarsi sul lavoro, le regie del Misantropo, delle Baccanti e di Madame de Sade seguite a ritmo battente, la cronaca dei piccoli fatti quotidiani sembrano un salvifico rituale per non soccombere a una tragedia di cui il regista conosce già l’ineluttabile corso «con battute, volti, reazioni.» «Questa non è un’opera letteraria, ma un documento. Non un libro, ma una testimonianza», dice Bergman accettando di renderlo pubblico dieci anni dopo. Ma non è solo uno strumento personale di elaborazione del lutto: nella lucida autoanalisi di ogni moto dell’anima, in quell’oscillare tra speranza e disperazione, coraggio e paura, infinita tenerezza e crescente estraneità, desiderio di dipendenza e istinto di fuga, c’è tutto il comune dramma umano della perdita, il senso di inadeguatezza davanti al dolore fisico e morale, e un’ammissione di quel mistero che resta ognuno a se stesso e agli altri, anche i più vicini e amati.