Intervista

«Doppio vetro»: la parola al traduttore

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«Doppio vetro»: la parola al traduttore

Data: 12 Dicembre 2019

Islanda terra di poesia. Intervista a Silvia Cosimini, traduttrice di «Doppio vetro»

Traduttrice e profonda conoscitrice della letteratura islandese, dalle saghe delle origini alla narrativa contemporanea, Silvia Cosimini ha tradotto «Doppio vetro» di Halldóra Thoroddsen, un breve romanzo rivelazione che attraverso la poesia e un’inattesa eroina anziana ha incantato molti lettori, oltre a vincere il Premio della Letteratura Europea e il Premio della letteratura femminile islandese. Le abbiamo fatto qualche domanda su questa particolare esperienza di traduzione.

La poesia ricopre un ruolo molto importante in certa narrativa islandese, per esempio nei romanzi di grandi autori come Thor Vilhjálmsson e Jón Kalman Stefánsson, da te tradotti. «Doppio vetro» presenta però caratteristiche formali che sembrano avvicinarlo ancora di più al linguaggio poetico, avendo uno stile lapidario e spesso ermetico, una struttura a frammenti, un incedere per lampi, visioni, suggestioni, metafore audaci. Quali difficoltà hai incontrato lavorando su un testo così ibrido e ambizioso?

Per secoli in Islanda, almeno fino alla fine del 1800, la poesia è stata il genere letterario per eccellenza al fianco di una prosa che circolava soltanto in forma orale o manoscritta, e forse per questo non bisogna stupirsi, immagino, che possa ancora improntare il ritmo della narrativa in certi autori contemporanei. Ho sempre immaginato la poesia come una specie di sistema dove ciascun elemento si lega con un rapporto preciso a tutti gli altri, e ciò che ne risulta è superiore alla somma di tutti i componenti: ritmo, lessico, allitterazioni, rime, similitudini, ecc… si compongono in un tutto che è ben più della loro somma. Tradurre una poesia quindi significa tentare di ricreare un sistema equivalente, entro il quale il traduttore è libero di comporre e scomporre le varie parti dando più o meno rilievo all’una o all’altra per ottenere lo stesso risultato. Quando però si va a trasporre un linguaggio poetico nella prosa, a inserire il sistema in un’intelaiatura narrativa, la faccenda si fa molto più complessa e per assurdo l’elasticità che regalava il sistema svanisce: si rischia davvero di sfociare nell’incomprensibile, nelle forzature. «Doppio vetro», pur nella sua (confortante!) brevità, è stato uno dei libri più impegnativi che mi sia capitato di tradurre, proprio per questo motivo. E anche per riuscire a rendere la specularità del vetro, che mi pare contraddistingua questo romanzo – c’è il racconto della protagonista, ma c’è anche la protagonista vista dall’esterno, come se fossero due livelli di coscienza, uno dei quali emerge ogni tanto nelle frasi in corsivo. Ho dovuto lavorare su più strati, producendo varie versioni: una prima stesura con il testo nudo e crudo, più esplicitato e comprensibile, e varie mani di ripulitura per “togliere” dove stavo dicendo “troppo”, perché mi tornasse un testo compatto e senza sbavature.


Visti i problemi interpretativi che pone il linguaggio poetico, hai avuto scambi e confronti con l’autrice nel corso della traduzione?

Moltissimi! Il libro mi ha posto di fronte a molti interrogativi, volevo essere sicura di aver interpretato bene le intenzioni dell’autrice. Tutte le ambivalenze, il pensiero criptico e denso, la percezione astratta della realtà, i riferimenti alla fisica e alla chimica, oppure quelli alla politica islandese, alla quotidianità di Reykjavík, lo scarto con il passato, il substrato fiabesco… avevo bisogno di sapere se con la mia lettura ero sulla strada giusta; solo una volta chiarito qual era il processo mentale alle spalle del testo potevo tentare di rendere in italiano la stessa prosa opaca e frammentaria. Un po’ come uno specchio d’acqua torbido di cui non si vede il fondo, ma che deve comunque far filtrare le stesse cose. Non conoscevo personalmente Halldóra, sapevo solo che appartiene a una famiglia di una certa levatura, come indica il cognome, e che è la moglie di un famosissimo attore di teatro, e devo ammettere che ero in soggezione quando mi sono vista costretta a rivolgermi a lei perché mi chiarisse certi punti, ma è stata estremamente disponibile e ha accolto ogni mia domanda, anche la più ingenua, con molta pazienza. È stata preziosa. Forse anche perché «Doppio vetro» era il suo primo romanzo, e la mia era la sua prima traduzione in una lingua straniera: credo fosse la sua prima esperienza in un “tu per tu” con una traduttrice.


Halldóra Thoroddsen dà voce a una donna anziana sensibile e ironica, al suo desiderio di appartenere alla vita e vivere intensamente malgrado il doppio vetro che sembra separare la sua generazione dal mondo, complici la nostra società e la nostra cultura. Quali sono a tuo parere gli elementi più affascinanti di questo romanzo, i fattori che hanno maggiormente contribuito al suo successo di pubblico e critica?

Sicuramente proprio la protagonista: è una donna un po’ imbronciata, abitudinaria; ha avuto una vita ricca, anche anticonvenzionale, adora i nipoti e apprezza la sensibilità infantile, ma è molto critica nei confronti dei loro genitori, ovvero della generazione successiva alla sua; osserva il mondo con uno sguardo disincantato, non banale, senza scadere in un trito “ai miei tempi”. Mette a nudo anche tutte le abitudini e i comportamenti degli anziani, è intelligente, sa cosa non dover fare. Poi cede e si lascia conquistare dalla vita, ma drammaticamente si vede togliere tutto di nuovo – senza melodrammi, con rassegnazione. Forse è proprio il pensiero astratto che consente ai lettori di immedesimarsi meglio – di ritrovarsi nella lettura.