Approfondimento
La ferita sanguinante della Rivoluzione culturale in Cina è un enorme non detto
Approfondimento
La ferita sanguinante della Rivoluzione culturale in Cina è un enorme non detto
Ilaria Maria Sala recensisce «Memoria rossa» di Tania Branigan per Domani, il 25 ottobre 2025.
In «Memoria Rossa. La Cina dopo la Rivoluzione culturale» la giornalista britannica Tania Branigan traccia un filo che unisce gli anni spietati dell’ultimo Mao alla fretta indiavolata della Cina odierna. È un testo esemplare sull’importanza dei non-detti che vivono rumorosamente dentro una società, e il modo che hanno di dare forma al presente.Sono passati quasi sessant’anni dall’inizio della Rivoluzione Culturale, quell’enorme, ripetuto ribaltamento di tutto, voluto dal presidente cinese Mao Zedong, e durato dieci anni, ovvero fino alla morte di Mao stesso. Dal 1966 al 1976 la Cina fu travolta da una specie di rivoluzione permanente in cui l’unica cosa che contava era la fedeltà fanatica a Mao: la popolazione cinese era di 800 milioni, ma vennero prodotti cinque miliardi di spillette in alluminio con il volto del presidente.
Un periodo febbrile, così fuori della norma da portare la Corea del Nord – il paese che più associamo al culto del leader – a definirla «una grande follia, che non ha niente a che vedere né con la cultura né con una rivoluzione», come riporta Tania Branigan in «Memoria Rossa: la Cina dopo la Rivoluzione Culturale». Branigan, arrivata a Pechino nel 2008 come corrispondente del Guardian, ha scritto un testo raro e avvincente, in cui entra direttamente sia in ciò che avvenne nel corso di un decennio senza pace, ma anche in quello che resta nella Cina contemporanea di un passato così traumatico.
Furia iconoclasta
Nel corso della Rivoluzione Culturale ogni punto fermo venne sostituito da altri, e poi da altri ancora, poi rimpiazzati di nuovo da quelli che erano stati spazzati via. Un’instabilità costante e violenta, che portò a più di due milioni di morti e un numero astronomico di feriti – senza contare le persone rimaste traumatizzate a vita, le famiglie distrutte, le istituzioni educative sabotate, e un numero inquantificabile di templi, monumenti, opere d’arte, archivi, ed edifici storici distrutti dalla foga iconoclasta delle Guardie Rosse, tutto con l’approvazione di Mao.
Le università e le scuole vennero chiuse. Veniva controllato il pedigree rivoluzionario familiare, con persecuzioni più severe per chi era, o era imparentato con, persone considerate critiche di Mao, proprietari terrieri, ex appartenenti al partito nazionalista, contadini “ricchi”, intellettuali, e una lunga serie di categorie definite come nemiche del popolo a seconda dei momenti.
Il “Grande Timoniere” aveva deciso di scatenare il potere del suo carisma personale per vendicarsi di un partito comunista che cominciava a chiedergli conto della follia più grave del suo regno, quel Grande Salto in Avanti, piano economico fantasista e delirante, che portò alla morte per fame un minimo di 20 milioni di persone – fino a 45 milioni secondo lo storico Frank Dikotter, che ne ha scritto nel volume «Mao’s Great Famine».
Per sfuggire a chi gli chiedeva conto delle sue politiche, Mao dichiarò ogni interrogativo sul suo operato anti-rivoluzionario e utilizzò l’idealismo degli studenti per sbarazzarsi dei nemici, di chi gli stava solo un po’ antipatico, ma anche di quelli che sembravano essere suoi amici, come Lin Biao, passato dall’essere erede in pectore a “traditore” talmente inviso da venir cancellato da ogni foto. Quando il caos divenne troppo ingestibile, e si prospettò lo spettro di una massa di giovani disoccupati nelle città, Mao spedì 17 milioni di loro nelle arretratissime campagne dell’epoca, a «imparare dai contadini», spezzando famiglie e impedendo per anni un ritorno, anche di pochi giorni.
Dal 1976 a ora ci sono stati momenti in cui si è potuto scrivere o parlare delle catastrofi del maoismo – entro stretti limiti: la letteratura delle ferite emersa poco dopo la morte di Mao (con autori come Wang Meng e Zhang Xianliang), è stata capace di guardare solo superficialmente a quel periodo, concentrandosi sulle vittime e non su cosa, e chi, causò tanto dolore.
Memoria e tabù
Oggi, affrontare in modo critico ed investigativo quelle tematiche è di nuovo tabù, ma in un paese in cui la storia è uno strumento propagandistico nelle mani dell’unico partito al potere dal 1949, non deve stupire che le nuove generazioni siano immemori di quello che avvenne quando i loro genitori erano ragazzi.
Certa conoscenza può mettere a rischio chi la riceve, e così, di Rivoluzione Culturale si parla solo di rado e in modo superficiale, che consente la nostalgia per un’estetica “rivoluzionaria”, ma non un’analisi di cosa rappresentasse, di cosa sia successo, e di cosa si è lasciata dietro. Branigan sceglie dunque di entrare proprio in questo tabù pervasivo, andando ad osservare le cicatrici lasciate della Rivoluzione Culturale, il trauma generazionale che ha provocato, e il modo in cui quell’epoca sanguinaria, irrazionale e turbolenta ha profondamente plasmato la società cinese contemporanea.
Il racconto spesso prende la forma di un avvincente reportage, con visite nei luoghi che sono stati maggiormente segnati dalla Rivoluzione Culturale e con interviste a persone che offrono prospettive particolarmente significative.
Branigan parla a psicologi e psicoanalisti, e anche alle vittime e ai loro carnefici. Le studentesse responsabili del primo decesso della Rivoluzione Culturale, la professoressa Bian Zhongyun, dell’Università Normale di Pechino, picchiata a morte nell’agosto del 1966, dalle sue allieve. O Zhang Hongbing, che porta sulla coscienza il peso di aver denunciato sua madre, Fang Zhongmou, per essere “anti-Mao”, e che venne uccisa davanti ai suoi occhi.
Memoria e smemoratezza, ci mostra Branigan, sono due facce della stessa medaglia. Il caos che ha travolto per dieci anni la Cina fu voluto dal suo presidente, che continua ad essere sepolto in un mausoleo in piazza Tian’anmen, ricordato da un mega-ritratto che campeggia all’ingresso della Città Proibita, e con il suo volto su tutte le banconote.
Ripercorrendo le vite modellate da quella decade, Branigan traccia un filo che unisce gli anni spietati dell’ultimo Mao alla fretta indiavolata della Cina odierna, i suoi momenti di ferocia, quell’individualismo senza freni di chi ha imparato a non fidarsi di nessuno, e il modo in cui la storia cinese sia modificata a seconda delle necessità, come nella vecchia battuta di era sovietica, secondo la quale il futuro è certo, ma è il passato ad essere imprevedibile.
«Memoria Rossa» è un testo esemplare sull’importanza dei non-detti che vivono così rumorosamente dentro di noi o dentro una società, e il modo che hanno, sottile, nascosto e devastante, di dare forma al presente, attraversando generazioni intere.