Intervista
Elisabeth Åsbrink vince il Premio Matilde Serao
Intervista
Elisabeth Åsbrink vince il Premio Matilde Serao
Titti Marrone intervista Elisabeth Åsbrink per Il Mattino, il 5 ottobre 2025.
«Io ho molto meno da combattere rispetto a lei che viveva in un'epoca ed una terra ben più patriarcale»Elisabeth Åsbrink, la scrittrice svedese cui va oggi il premio organizzato da «Il Mattino», intitolato a Matilde Serao giunto all'ottava edizione, è una sentinella delle parole ed una narratrice del suo tempo. Ha lavorato per la radio e la tv e, da giornalista, è stata autrice di reportage letterari capaci di fondere temi sociali e storici. Ha firmato inchieste rigorosissime, con le quali ha fatto spesso affiorare verità scomode, mettendoci, come si dice, la faccia. Ha vinto premi prestigiosi, come l'August e il Kapuciski. Poi, a 41 anni, la svolta: ha scritto un densissimo saggio intitolato 1947, costruito seguendo le tracce della sua famiglia e collegandole all'anno cruciale in cui nasce la Guerra Fredda, viene elaborata la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, emergono gli orrori della Shoah e una rete di nostalgici del nazismo mette in salvo alcuni gerarchi del Reich. A partire da quel libro, uscito in Svezia nel 2016 e in Italia due anni dopo da Iperborea, editore di quattro sue opere, ha orientato sempre più la sua scrittura in una direzione esplicitamente letteraria. Ed è, il suo, un canone letterario personalissimo, pervaso dall'attenzione ai temi della società e della storia, basato su ricerche e fonti rigorose e allo stesso tempo forgiato con una scrittura che coniuga non-fiction, narrazione romanzesca e lampi di poesia. Le radici familiari, le origini ebraiche, i nazionalismi del secolo scorso e i convulsi cambiamenti della contemporaneità sono alcuni tra i temi di una produzione ricca e ormai prevalentemente letteraria. Che sempre riflette anche le origini giornalistiche, proprio à la maniére de Donna Matilde.
Due giornaliste e scrittrici in apparenza agli antipodi: una donna del Nord come lei, Elisabeth Åsbrink, nata a Gotebörg nel 1965, e una del Sud come Matilde Serao nata a Patrasso ma napoletana a tutti gli effetti. Che cosa sente di avere in comune con lei?
«È una domanda molto pertinente. Non tanto per il contrasto tra Napoli e la Svezia, quanto per la differenza nello standard dominante su cosa una donna sia e debba essere. Rispetto a Serao, ho molto meno per cui combattere: sono un individuo in una società secolare in cui il patriarcato è presente ma molto più debole rispetto alla Napoli di Serao. La sua vita e la sua opera sono ammirevoli perché fu una pioniera: scelse di partecipare alla vita pubblica in un modo che poche donne, all'epoca, osavano. Io non posso affermare lo stesso. Un'altra differenza significativa è che lei era profondamente radicata nella sua città e nella sua regione, come lei stessa dice "napoletana in ogni aspetto". Io, invece, sono figlia di immigrati arrivati in Svezia da due Paesi diversi. Ho trovato la mia casa proprio nel non avere una casa. Ma c'è un legame forte tra me e Serao più forte di tutte le differenze messe insieme: siamo narratrici. Viviamo con la penna in mano (anche se io uso anche il computer). Raccontiamo storie, qualunque sia la forma: giornalismo, saggistica, romanzi, non-fiction. Troviamo una casa nel nostro linguaggio che descrive la vita».
Matilde Serao e la Svezia: la scrittrice napoletana per sei volte fu candidata al Nobel per la Letteratura. Alla fine, nel 1926, l'Accademia di Svezia le preferì Grazia Deledda. Alcuni critici letterari, tra cui Ulke Åkerström, docente di letteratura italiana all'università di Göteborg, sostengono che la mancata assegnazione a Serao del Nobel non dipese dalle sue posizioni pacifiste né dalle pressioni di Mussolini, ma da una sola valutazione: «Serao sarebbe stata considerata "troppo napoletana" e non avrebbe avuto il sostegno all'interno dell'Accademia che invece possedeva Grazia Deledda». Secondo questa interpretazione, l'Accademia svedese fu influenzata da pregiudizi sul suo carattere regionale e dalla sua collocazione ritenuta marginale nel canone letterario nazionale. Quale è la sua opinione?
«Purtroppo in Svezia Matilde Serao è molto poco conosciuta. Solo due libri sono stati tradotti in svedese, da una piccola casa editrice indipendente. Quanto a me, non ho opinioni su questioni che non ho approfondito o studiato. Invece di speculare, ho contattato l'Accademia svedese per verificare se esistono materiali relativi a quella decisione: se troverò qualcosa negli archivi, saprò rispondere».
Lei è giornalista, drammaturga e scrittrice, sempre attenta alla storia e alle profonde riflessioni sul passato. Prendiamo una passione alla volta. Come è arrivata al giornalismo?
«Un amico una volta mi disse che Marcel Proust aveva scritto qualcosa che mi è rimasto impresso anche se dubito che la frase provenga davvero da Proust. Si dice che Proust abbia affermato: "Facciamo solo le cose in cui siamo secondi". Ho scritto da quando ho imparato a scrivere. Ho un diario di quando avevo 7 anni in cui annotavo sogni, cose viste e sentite. Ho sempre desiderato essere una scrittrice. Ma il giornalismo sembrava più raggiungibile, più possibile, e così ho incanalato la mia voglia di raccontare storie nella struttura giornalistica. Ma quella era la mia seconda scelta, la mia zona di sicurezza. Il vero sogno diventare autrice a tempo pieno mi spaventava. Ho fatto esattamente ciò che, a quanto pare, Proust aveva messo in parole. Quando l'ho capito, ho iniziato a reindirizzarmi verso la scrittura libera».
Prima di passare alla scrittura letteraria, da giornalista quale è stata la sua inchiesta più impegnativa?
«Sono tutte impegnative, per il tema o per la forma. Se non lo fossero, non sarebbero interessanti. Detto ciò, avere a che fare con nazisti, alcuni dei quali violenti, quando ho scritto il mio primo libro, non è stato facile. Mi avevano avvertita di starne lontana, ma li ho intervistati comunque. Il libro, Smärtpunkten (Pressure Point), indaga la verità dietro le quinte della collaborazione tra il drammaturgo più acclamato di Svezia, Lars Norén, e tre criminali pericolosi. Insieme scrissero e misero in scena una pièce intrisa della loro ideologia nazista e, il giorno dopo l'ultima rappresentazione, uno di loro partecipò al brutale assassinio di due poliziotti. Il libro non è ancora tradotto in italiano, ma di recente è diventato una serie televisiva e l'attrice Maria Sid, che interpreta il ruolo femminile principale, è stata candidata come miglior attrice agli International Emmy Awards».
Speriamo di leggerlo presto, e di vedere anche la serie tv. Nella patria di Strindberg, quanto è difficile dedicarsi alla drammaturgia?
«L'interesse del pubblico per il teatro è in calo e i teatri hanno sempre meno fondi, quindi la produzione drammaturgia oggi ha una vita molto difficile. Ho quasi smesso».
Come e perché è avvenuto il passaggio dal giornalismo alla letteratura? Pensa che la finzione possa arrivare dove il giornalismo non può?
«Anche da giornalista, ho sempre scritto in modo letterario, soprattutto nel genere della "non-fiction narrativa". Cerco di combinare poesia e fatti verificati. Un linguaggio poetico arriva ai sogni e all'immaginazione del lettore più fortemente di quanto facciano i generi che puntano a stimolare l'intelletto. Ma un buon autore arriva a entrambi, naturalmente».
Oggi le guerre in Ucraina e in Medio Oriente sembrano lasciare l'Europa del tutto impotente, mentre nazionalismo e fascismo temi ricorrenti nel suo lavoro si reincarnano in forme inattese. Vorrei citare una frase di «1947»: «Il tempo non si muove esattamente come dovrebbe». Parole oggi più vere che mai. Qual è stato, secondo lei, il punto di svolta che ci ha condotto all'attuale situazione?
«La risposta sarebbe lunga come un saggio In breve, indicherei il 2016 come punto di partenza. In Siria cade Aleppo. In Turchia falliscono i tentativi democratici. La Gran Bretagna lascia l'Unione europea. La Russia interferisce nelle elezioni americane. Donald Trump sale al potere. Non aggiungo altro».
In «Made in SwedenLe parole che hanno fatto la Svezia» lei scrive di Olof Palme, osservando che la sua politica mirava a presentare la Svezia all'estero come «la beniamina del terzo mondo», orientata ad aiutare chi era nel bisogno e animata dalla «convinzione incrollabile che il Paese dovesse assumere una guida nei dilemmi morali del mondo». È ancora così oggi?
«Ci sono ancora tracce di questa ambizione nella politica svedese, particolarmente visibili durante i governi socialdemocratici che hanno cercato di introdurre un approccio femminista negli affari internazionali».
Tutti i suoi libri nascono da un'accurata ricerca delle fonti e da una meticolosa ricostruzione storica, e pongono il tema della memoria al centro. Nel romanzo «Abbandono» lei intreccia una storia personale e familiare legata alle radici ebraiche della sua famiglia con aspetti delle persecuzioni razziali del Novecento. Come vede oggi la questione dell'identità, in particolare di quella ebraica, alla luce di ciò che accade nella Striscia di Gaza?
«Il governo israeliano è corrotto, incompetente e controllato da fondamentalisti religiosi. Insistere sul fatto che debbano esserci conseguenze e che gli alleati di Israele debbano reagire, è una cosa ovvia. Il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas non può legittimare un genocidio. Indicare questo non è né antisemitismo né antisionismo. D'altra parte, mettere in discussione l'identità ebraica come conseguenza di questi fatti è un cliché antisemita. Gli ebrei non sono il governo israeliano. Nemmeno gli israeliani lo sono: molti protestano in strada, rifiutano di arruolarsi, in migliaia lasciano il Paese. L'identità ebraica è molteplicità e ricchezza. Legarla alla situazione politica attuale è non solo pericoloso ma anche ignorante. Non accetterei mai che una donna musulmana debba spiegare la propria identità islamica alla luce dell'Isis o dell'attentato dell'11 settembre».
In «Made in Sweden» lei crea una sorta di mosaico che va da Gustavo I Vasa a Zlatan Ibrahimovi, Pippi Calzelunghe, Greta Thunberg e Lisbeth Salander. Quale aspetto dell'identità svedese desidera raccontare oggi?
«In questo momento la Svezia, come gran parte del mondo, sta vivendo una frattura del dibattito pubblico che porta a cancellazioni, scontri e odio invece che a tolleranza e soluzioni democratiche. Questa frattura è provocata dalla guerra Israele-Gaza, che divide famiglie e amici. È la terza frattura che sperimentiamo in breve tempo: prima il movimento #MeToo, che aveva creato divisioni simili; poi la pandemia, che ha generato rabbia, frustrazione e profonde spaccature nella società. Dobbiamo prendere sul serio questa rottura e contrastarla, per difendere valori democratici come la convivenza con chi non condivide le nostre opinioni. Come ha scritto la scrittrice russo-americana Masha Gessen: andate a cercare persone diverse da voi e lavorate insieme».
In «Made in Sweden» lei scrive anche di Ingvar Kamprad, l'inventore di Ike e icona nazionale svedese. Approfondisce le sue simpatie filonaziste e la vicinanza al movimento fascista e antisemita di Per Engdahl. Gli svedesi le hanno perdonato queste rivelazioni o le hanno vissute come un attacco alla loro storia di successo?
«Si sono sentiti feriti. Ike è così integrata nell'autopercezione di molti svedesi che lo hanno preso come un fatto personale».
In Italia la Svezia è stata vista come una pioniera dell'emancipazione femminile e della libertà sessuale già nell'800. Poi lei arriva con il romanzo «Il mio grande, meraviglioso odio» e racconta la Svezia della fine del XIX secolo attraverso la figura potente di Victoria Benedictsson, una scrittrice oppressa da convenzioni sociali arretrate: costretta a usare uno pseudonimo maschile per pubblicare, a rinunciare a un marito ostile al suo successo e perfino ai figli, fino a togliersi la vita. Come è nata l'idea di dedicarle un romanzo?
«Da adolescente ero affascinata dal suo destino, così drammatico e tragico. Più tardi ho compreso quanto fosse straordinariamente moderna in un'epoca in cui le donne in Svezia non avevano diritti umani. Quando ho iniziato a lavorare al libro su di lei, due aspetti mi hanno spinto avanti. Attraverso la sua vita e i suoi scritti si può leggere la lotta universale di un essere umano che vuole diventare artista, nel suo caso una scrittrice, e che riesce a decifrare le diverse fasi di questo processo. Nel suo caso come immagino in quello di Serao c'erano ovviamente molti ostacoli, essendo una donna in una società patriarcale. Il secondo aspetto che trovo molto interessante è che la sessualità è una forza potente nella nostra società, ma raramente viene presa in considerazione. Ci sono molti esempi della sessualità come motore dei cambiamenti sociali, eppure gli storici tradizionali tendono a trascurare questa dimensione. Nel periodo specifico di Benedictsson, nella Scandinavia degli anni 80 dell'800, la sessualità fu una forza enorme che cambiò tutti i Paesi scandinavi, spingendoli verso la modernità. Anche questo è un elemento fondamentale di Il mio grande, meraviglioso odio».
Serao aveva un mantra: «Scrivere, scrivere, scrivere questo è il mio mestiere. Questo è il mio destino. E lo farò fino alla morte». Vale anche per lei?
«Assolutamente sì.»