Intervista
QUESTO PAESE NON È IN VENDITA

Intervista
QUESTO PAESE NON È IN VENDITA
Anna Maniscalco intervista Niviaq Korneliussen per Vanity Fair il 04/07/2025.
«Sono cresciuta guardando film danesi, programmi danesi, o leggendo libri in inglese. Quello che sono diventata si basa anche su questo. È una parte di me che non odio. È una parte di me che è semplicemente il mio destino».La scrittrice Niviaq Korneliussen è seduta nella sua casa a Nuuk, capitale della Groenlandia. La luce nella sua stanza è bianca, fredda, sopra il rumore del traffico milanese che entra dalla mia finestra mi sembra quasi che dal suo lato della videochiamata si sentano i versi di alcuni uccelli. «Ma non sarò mai danese», aggiunge dopo poco.
L'isola in cui vive, nel mezzo dellArtico, 57 mila abitanti in totale di cui 18 mila solo a Nuuk, quest'anno si è ritrovata gli occhi delle più grandi potenze estere puntati addosso. Ricca di risorse petrolifere, minerarie e soprattutto di terre rare, territorio danese autonomo dagli anni Cinquanta dopo secoli di colonizzazione, è tra le mire di Donald Trump, che la vuole annettere agli Stati Uniti (e non esclude di utilizzare la forza). A metà giugno il presidente americano ha ordinato al Pentagono di spostare la Groenlandia dal centro di comando che segue l'Europa a quello settentrionale, che si occupa di Stati Uniti, Messico, Canada, Porto Rico e Bahamas. Quasi nello stesso periodo, il presidente francese Emmanuel Macron è volato a Nuuk insieme alla prima ministra danese Mette Frederiksen: il loro messaggio è che la Groenlandia non è in vendita. Allo stesso tempo, non è esattamente indipendente.
Quando chiamo Korneliussen per parlare del suo libro d'esordio Una notte a Nuuk, il destino del suo popolo continua a riemergere. Il romanzo parla di un gruppo di ventenni che sta cercando la propria identità: sono giovani queer che non pensano troppo al passato di colonizzazione del loro Paese e ai suoi strascichi, sono affamati di futuro. Korneliussen l'ha scritto 11 anni fa, quando si sentiva come loro. A 35 anni, ha cambiato prospettiva. Le minacce dall'estero, il problema strutturale dei suicidi tra i ragazzi, un'identità frammentata tra le tradizioni dei colonizzati e quelle dei colonizzatori: per lei, più che mai, «è il momento di reagire».
Pensa che visite come quella di Macron siano un aiuto per la vostra causa?
«Con lui c'è anche Mette Frederiksen. È una dimostrazione di potere in tanti modi. Come se non potessimo parlare per noi. Da un lato mostriamo al mondo che non saremo parte degli Stati Uniti perché il nostro più grande alleato è la Danimarca, però l'amore e l'attenzione della Danimarca per la Groenlandia sono sottoposti a una condizione. Tutto ha un prezzo».
Cosa significa essere groenlandesi oggi?
«C'è un grande dibattito sull'identità nazionale: puoi avere anche gli occhi azzurri e i capelli chiari? Devi essere in grado di parlare groenlandese? Per i giovani cercare la propria identità è più difficile rispetto ai coetanei occidentali. Siamo così isolati dal mondo, ma siamo anche più connessi con i social. Vedo che ci stiamo muovendo verso gli altri popoli indigeni, come quelli in Canada, in Alaska, o i Sami in Finlandia. Abbiamo molto in comune con loro».
E per lei cosa significa?
«Penso che vivere qui, avere una forte connessione con la natura e la cultura di questi posti mi renda una groenlandese. E il fatto che io voglia lottare per il mio Paese e per i giovani che vivono qui. Vale per me, non dico che ci sia un modo giusto o sbagliato di essere».
Ha scritto il primo romanzo in groenlandese, il secondo in danese. Qual è il suo rapporto con queste lingue?
«Quello con il groenlandese è molto emotivo, è la mia lingua madre. La sento nel mio cervello, nel mio corpo. Il danese è solo una lingua che devo sapere per poter essere parte del mondo. Così come l'inglese. Però sono una scrittrice: parlare queste lingue apre anche il mio orizzonte. Mio figlio ha due anni, e viviamo a Nuuk, dove molti parlano danese. Per me è importantissimo che il groenlandese sia la sua lingua madre».
Quante cose sono cambiate da quando ha scritto questo libro?
«Avevo vent'anni, e ora ne ho 35 e ho un bambino. Sono un'adulta, mentre all'epoca non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita. Ero all'inizio del percorso per capire il mio posto nella società: lo si vede nel testo, è giovane, veloce, e arrabbiato».
I capitoli hanno i titoli di canzoni.
«Erano i brani che si sentivano nelle feste allora. La musica è una parte importante nelle vite dei giovani groenlandesi, permette loro di connettersi con il resto del mondo».
Quali erano quelle che ascoltava lei?
«Di tutto. Amavo molto Pink e Avril Lavigne. La musica mi ha aiutato in un modo in cui nient'altro avrebbe potuto: mi interessava capire come puoi vivere la tua vita senza sentirti sbagliata, o non benvenuta nella tua società. Non ascoltavo per niente la musica danese, ora lo faccio di più».
Per i suoi personaggi scoprire la propria identità è anche una grande gioia. Raccontiamo troppo spesso solo le difficoltà delle storie nella comunità Lgbtq+?
«Volevo che alcune delle storie finissero bene. Sono giovani, creano connessioni bellissime che spesso gli adulti non sono in grado di formare. Quando lavoro con i ragazzi vedo questo: il coraggio. Hanno sperimentato così tante cose terribili nella loro vita, ma riescono ancora a essere belle persone per gli altri. Trovo sia potentissimo cercare la propria felicità».
I suoi personaggi fanno molto più sesso dei ragazzi di oggi?
«Ho letto che i ragazzi fanno meno sesso di noi millennial, non so se capisco il perché, forse per i social. Quando si è giovani fa parte della scoperta della propria identità, come nel libro. Specialmente se si è queer, e le opportunità di essere apertamente gay sono più ristrette. Non è come in America, o in Italia (la Groenlandia ha una legge contro la discriminazione in base all'orientamento sessuale e all'identità di genere , ndr) ma siamo comunità piccole, tutti conoscono tutti e può essere difficile sentirsi diversi. Ho letto che la malattia più diffusa di questo decennio sarà la depressione... È proprio diventato più duro vivere».
Due anni fa ha scritto La valle dei fiori sul problema dei suicidi in Groenlandia. E cambiato qualcosa?
«Purtroppo ci sono ancora molti suicidi. Sono persone che conosci, che vedi su TikTok. Viaggio tanto per il Paese per sensibilizzare sulla prevenzione, ma sono una persona sola. Abbiamo bisogno di psicologi che siano di qui, non solo di danesi che vengono per un paio di mesi e tornano indietro. Se hai sperimentato uno o due traumi nella tua vita la tua possibilità di suicidarti aumenta tra il 50 e il 70 per cento. E qui ci sono molte famiglie che hanno dei problemi, e sono state ignorate per generazioni. La gente prova a fare qualcosa, il governo anche. Ma ci vuole una rivoluzione».
Alle situazioni famigliari si aggiunge la vostra storia collettiva?
«Quando la Danimarca ha dovuto rinunciare alle sue colonie non ha voluto rinunciare a noi. Dovevamo diventare parte del regno danese, da uguali. E iniziata la sistematica distruzione della nostra società: le persone si sono trasferite dai villaggi alle città più grandi, sono state forzate a lavorare nelle fabbriche invece di fare i cacciatori, come hanno fatto per tutta la loro vita. Si sono diffusi l'alcolismo e la violenza. Abbiamo perso la nostra identità».
C'è un modo per elaborare questo trauma?
«Come il sistema può aiutare delle persone che sono state ignorate per sei, sette generazioni? Però non è tutto bianco e nero, non dobbiamo indicare il popolo danese e dire che è colpa loro se ci suicidiamo. Il problema dei suicidi è un grande puzzle con alcuni pezzi, e devi averli tutti insieme per capire il quadro generale».
Nel resto del mondo occidentale stiamo tornando indietro sui diritti acquisiti dopo anni di lotte. Sta succedendo anche in Groenlandia?
«È una cosa globale. Si sta normalizzando l'odio che è rimasto nascosto dietro delle porte chiuse, per molto tempo. Forse non l'abbiamo davvero combattuto. E molto più visibile di dieci anni fa: dobbiamo esserne consapevoli. E penso che noi siamo stati isolati troppo a lungo. Ora siamo tornati all'attenzione perché Trump ci vuole comprare».
Le storie nel libro sono molto individuali per quanto intrecciate. C'è un senso di comunità, a Nuuk?
«E una comunità normale, con alcuni destini un po' diversi da quelli degli altri Paesi. Ci sono tante cose che accadono nel mondo e qui in Groenlandia che sono anormali, e dobbiamo reagire come un popolo. Mi sembra che i più giovani lo stiano capendo. Alle ultime elezioni hanno votato molti più ragazzi rispetto al passato. Spero che ci muoveremo con compassione e rispetto per gli altri. Con quello che succede con Trump, o a Gaza, ci troviamo a un bivio e dobbiamo scegliere la strada da percorrere».
E qual è la sua speranza?
«Ho paura a essere onesta, pensando a tutte le situazioni che stanno volgendo al peggio. Mi aiuta pensare che la gente reagisca. E un mondo spaventoso in cui vivere, ma alla fine penso che ci sia sempre speranza per l'umanità».