Intervista

MATHIJS DEEN SFOGLIA L'ALMANACCO DEL RENO

Intervista

MATHIJS DEEN SFOGLIA L'ALMANACCO DEL RENO

Data: 12 Giugno 2025

Antonio De Sortis intervista Mathijs Deen per Alias, il manifesto, l'11/05/2025

Figure reali e fittizie affollano la genealogia del «Fiume infinito»: ce ne parla l’autore, che sarà al Salone del libro di Torino 2025, dove rappresenterà le edizioni Iperborea e l’Olanda, paese ospite.

La storia del paesaggio europeo, prima ancora di trovare la sua rappresentazione nelle arti figurative, conosce una tappa fondamentale nella definizione che le è data dal termine inglese landscape, importato dall'olandese landshap, che andava a indicare - come scrive lo storico e documentarista Simon Schama in Paesaggio e memoria - «un'unità di insediamento umano, o addirittura un'unità amministrativa». Il legame simbolico fra territorio e lavoro non a caso è stato messo a punto nei Paesi Bassi, dove l'ingegneria idraulica è una sorta di arte collettiva già dai tempi in cui Plinio il Vecchio visitò le torbiere del mare del Nord. La scrittura di Mathijs Deen si inserisce in questa tradizione: nelle sue pagine, lo sfondo naturale sale in primo piano, sempre in relazione alla presenza umana, che osserva e a sua volta si ritrova osservata. Nel suo libro, appena uscito da Iperborea, «Il fiume infinito» (traduzione di Chiara Nardo, pp. 416, € 20,00) Mathijs Deen descrive il Reno non solo in quanto arteria di collegamento, perimetro, confine - lo stesso confine che nell'antichità separava i romani dai barbari e secoli dopo avrebbe allontanato la cultura cattolica da quella protestante - ma risveglia un intero pandemonio di figure storiche o fittizie. Sono figure legate all'immaginario fluviale, che coinvolgono militari, regnanti, creature fantastiche in un composito racconto in prima persona, dove l'osservazione geografica si incrocia con la finzione storica. Come nel precedente «Per antiche strade», le prospettive si moltiplicano: la geologia porta a inseguire la varietà di propaggini cui il fiume ha dato forma lontano dal proprio letto e fuori dai propri argini, in un vasto dominio che si estende potenzialmente all'intero continente. Percorrendo la genealogia di questi trasbordi, lo scrittore olandese si interroga sull'identità europea e ne espone il ventaglio, mettendo il lettore di fronte a una sorta di almanacco. A pochi giorni dall'arrivo di Mathijs Deen al Salone del Libro di Torino, dove l'Olanda sarà il paese ospite, abbiamo parlato con lui di tutto ciò che il suo libro porta con sé.


Lei descrive il Reno come un cosmo a sé. Poiché il tentativo di individuare il punto dei valichi alpini da cui sgorga il fiume lei dice essere stato vano, il suo viaggio potrebbe apparire motivato dallo scioglimento di questo enigma, quasi affrontasse un mistero delle origini, che via via si allontana. Trova che questa tensione indirizzata alla fonte dei fenomeni - storici, geologici - sia legato al nostro periodo storico, o crede sia intrinseca alla funzione dei miti?
Potrebbe trattarsi di un bisogno moderno. Soprattutto in un momento in cui le vecchie storie, le storie dei padri e dei nonni, non sembrano soddisfare le curiosità dei più giovani, c'è una ricerca di nuovi miti, che riguardano sempre origini scomparse da qualche parte nella notte dei tempi e che si cercano per tentare di trovare un significato alla propria vita. Per quanto riguarda il mio viaggio, quasi sempre ci si muove dalla sorgente alla foce; ma questa strada obbedisce a una sorta di logica geografica, che non mi sembrava utile. Volevo piuttosto seguire una logica cronologica, e non è affatto detto che la sorgente della quale andavo in cerca fosse presente per prima nell'estuario. Tuttavia, per dimostrare a me stesso quanto questa questione fosse problematica, ho fatto il tentativo di risalire alla fonte del Reno proprio per chiarire quanto sarebbe stato inutile e quanto il metodo fosse errato. Al contempo trovavo fosse divertente da raccontare. Proprio come lei osservava, più si procede verso la fonte più questa sembra svanire. A un certo punto mi sono rivolto a uno scienziato, che mi ha dimostrato come la ricerca della fonte nel caso del fiume non sia fruttuosa, perché questa è ovunque: nell'acqua piovana che cade a Düsseldorf come in un piccolo autolavaggio nel nord della Francia. Il Reno non è solo un fiume, è un intero paese: questa rivelazione è stata per me enormemente liberatoria, era la chiave che mi serviva per raccontare questa storia. In un certo senso era la chiave del mito.

Rispetto al passato, oggi si tende ad attribuire ai confini fisici un valore meno dirimente. Nel suo libro tuttavia sembra che il Reno abbia avuto il potere di determinare la storia olandese e che questo sia ancora vero, sia in termini culturali che religiosi.
In una terra priva di confini, quelli del fiume sono gli unici possibili. Non sono gli Stati, o la politica a dettarli, ma la geografia e la gravità. Tutti coloro che vivono all'interno del bacino idrografico del Reno condividono qualcosa. L'entità Olanda non esisterebbe senza i suoi fiumi. Ad Amsterdam, vivo sui sedimenti del Reno, trasportati fin qui dal confine ceco, dal nord della Francia, dalla Germania, dal Lussemburgo, dalla Svizzera, dall'Austria. In minima parte anche dall'Italia. Da un punto di vista fisico, il nostro paese nasce da ciò che il resto dell'Europa ha depositato sul corso del Reno. Lo stesso Napoleone parlò dei Paesi Bassi come di una «alluvione di fiumi francesi». Secondo il mito di fondazione dei Paesi Bassi, i Batavi hanno seguito il corso del fiume e si sono stabiliti qui. Tuttavia, il fatto che viviamo nelle pianure, sugli argini a ridosso del mare, ci rende anche molto vulnerabili alle inondazioni, e l'unico modo per mantenere la terra abitabile è consultarci e collaborare. In alcune regioni olandesi questa cultura della concertazione è penetrata a fondo nella società. Non a caso, la nobiltà non ha mai avuto un particolare potere, da noi. Aveva bisogno del popolo, e il popolo di loro e della Chiesa. I cistercensi e i benedettini nei Paesi Bassi scavavano canali, costruivano chiuse. È stato il Reno a portarci fin qui, depositando la terra su cui viviamo e che dobbiamo assicurarci non scompaia di nuovo.

C'è un genere di letteratura, a cui anche i suoi libri vengono associati, che è un ibrido di storia e racconto di viaggio, il cui scopo è spesso quello di preservare contesti il cui destino appare segnato: per cause naturali, o per gli effetti del turismo o delle guerre. Nel suo libro si avverte, al contrario, un senso di continuità fra passato e presente. Mischiando i pini, associando vicende antiche e contemporanee, lei ottiene un intreccio di racconti del Reno, in cui tutto ricorre.
Sì, ha ragione nel sottolineare come i miei libri cerchino di indicare una sorta di continuità più che preservare quanto rischia di andare perduto. Per esempio, ho descritto un olandese che vive sulla costa e a un certo punto si mette al servizio dei romani. Alcuni scavi archeologici hanno rinvenuto una maschera che dimostra come egli fosse un cavaliere, che probabilmente abbandonò quella maschera nel fiume. Si pensa sia stato al servizio dei romani più o meno per venticinque anni, come era normale ai tempi; ma poi anche lui tornò nel luogo in cui era cresciuto. Nei Paesi Bassi sono stati portati alla luce diversi oggetti, come quella maschera, o le navi che i romani utilizzavano per attraversare i fiumi. Affiancando a questi reperti reali un po' di immaginazione, ho pensato: ecco, quel cavaliere deve essere tornato su una nave del genere di quelle ritrovate. Anche lui ha conosciuto il paesaggio fluviale, gli uccelli che ci vivono, le pianure alluvionali, il modo in cui il fiume si muove sotto una barca. Così era allora e così è adesso. Per scrivere questo libro ho navigato assieme al barcaiolo del Reno, e ho provato la forza del fiume, che mi è apparsa come qualcosa di sconfinato, anche nel tempo. Se fossi stato sulla barca con quel cavaliere le nostre lingue diverse ci sarebbero state comunque di ostacolo, ma avremmo condiviso la stessa sensazione che il fiume ci regalava. Il Reno mi ha dato l'opportunità di trasporre la sua storia in un'epoca che per il resto è effettivamente perduta. È stato come aprire il tempo con un piede di porco.

L'inondazione di Sant'Elisabetta, a cui lei ha dedicato uno dei capitoli più significativi e divertenti, può essere considerata una sorta di catastrofe biblica nella storia olandese. C'è una scena in cui lei fa incontrare Filippo II di Spagna e Guglielmo d'Orange per provare a individuare il punto in cui scorreva la Vecchia Mosa, il fiume sommerso durante il disastro del 1421. Mi sembra sia esemplificativo di un certo suo modo di accostare non solo la finzione storica ma anche la mentalità degli olandesi quando si tratta di mettere le acque a regime.
Filippo veniva dalla Spagna. Guglielmo dalla Germania. Entrambi erano impelagati in una operazione, quella che lei ricorda, in realtà inutile. Non c'è molto di olandese, in questo. Di questi due uomini, che si trovavano l'uno di fronte all'altro, mi interessava raccontare la lotta per il potere; anni dopo, quell'incontro sarebbe culminato nella guerra alla quale né Guglielmo né Filippo sopravvissero. Ma in quel momento stavano cercando di aggrapparsi all'epoca di Carlo V, quando la Vecchia Mosa era ancora lì. Certo, la pretesa di controllo è una caratteristica olandese, e trovo sia un grande argomento, potrei parlarne a lungo. Che per assicurarsi la sopravvivenza del paese gli ingegneri cerchino di collaborare con la natura è un fatto abbastanza recente, ma non bisogna dimenticare che la nostra terra è circondata da una diga: il percorso più breve tra due punti è sempre una linea retta. Abbiamo fossati dritti, argini dritti, abbiamo messo tutto a regime, su tutto vige un enorme controllo. Quando ero studente, vivevo a Groninga, nel nord del paese, e lavoravo per una stazione radio regionale in cui mi occupavo anche del telegiornale del nord. Uno dei problemi era: dove passa il confine? Dov'è il confine tra i Paesi Bassi e la Germania? C'è stata persino una disputa tra i due paesi, rispetto a alcuni banchi di sabbia che cambiano continuamente forma.

I suoi libri sono spesso scritti in prima persona. In che modo la sua esperienza personale si interseca con il suo interesse per la storia europea?
Credo che l'interesse per la storia europea e l'interesse per il fiume in qualche modo coincidano, perché il Reno non riguarda certo un solo paese. Sono nato nel 1962 e i grandi autori dei Paesi Bassi che leggevamo da ragazzi scrivevano tutti della guerra. Non era un argomento di cui si parlava in casa, comunque se ne avvertiva il peso. La mia generazione doveva cercare di uscire dall'ombra di quegli scrittori e di tutti coloro che avevano raccontato la loro terribile educazione calvinista, o quella maturata nelle colonie. E noi, di cosa potevamo scrivere? Un giorno andai a Parigi, al Centre Pompidou, dove c'era una retrospettiva sul XX secolo, che ne coglieva non gli eventi, non la politica, bensì gli oggetti: una sedia, una radio, un rasoio. A mia memoria, è stata la prima retrospettiva sul '900 in cui la guerra non compariva, e dunque poteva coinvolgere un ottantenne come un trentenne o un quindicenne. La storia degli oggetti è una grande livellatrice, mi ha insegnato che esiste un modo di guardare le cose, o la storia o la mia stessa vita dentro un orizzonte molto più vasto. E così mi sono liberato dall'idea di avere un gap rispetto alla generazione precedente, che aveva sperimentato di tutto, e quindi poteva scriverne, mentre io che non avevo vissuto nulla di paragonabile non ero altrettanto titolato.