Approfondimento
SGUARDI E CORNICI DI POLVERE E LUCE

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SGUARDI E CORNICI DI POLVERE E LUCE
Cristina Battocletti recensisce «Di luce e polvere» di Esther Kinsky su il Sole 24 Ore l'08/06/2025.
La scrittrice tedesca racconta un'impresa che la vede protagonista: rilevare un cinema in un villaggio ungherese. Oltre l'avventura, il libro è una magnifica riflessione sull'amore per il grande schermo e l'«umanità» della sala.Talvolta i libri hanno nomi fantasiosi, evocativi, un poco furbi, mélo o devianti. «Di luce e polvere» di Esther Kinsky ha, invece, una corrispondenza perfetta tra contenuto, titolo e copertina, realizzata con un paesaggio di colori primari - rosso, verde, giallo -, che la stessa scrittrice tedesca cerca addentrandosi in Ungheria. È affamata di una pianura in cui perdersi, simile all' heimat infantile del padre, così piatto da poter scorgere i vagoni del treno all'orizzonte già ore prima del loro arrivo. Trova, invece, in un piccolo villaggio un cinema abbandonato, il Mozi, e decide di rimetterlo in piedi insieme a una coppia di coprotagonisti, "fulminati" dalla passione reciproca dentro a un cinema. In questa regione, dove prevalgono mancanze e assenze, lo sguardo dell'autrice genera una cornice nuova, piena, nella stagione calda, di girasoli, mais, acacie e molti papaveri. «Di luce e polvere» parla soprattutto di cornici con cui delimitiamo il nostro sguardo e di un'avventura che si trascina dietro inevitabilmente una riflessione sull'amore per il grande schermo e l'"umanità" della sala, un luogo in cui «tutti gli sguardi» sono volti «nella stessa direzione», quella «stabilita dal proiezionista, invisibile al pubblico». Kinsky non fa della cinefilia un tronfio monito, un consiglio da "vecchio saggio", mostra solo un pervicace e gentile attaccamento alla sala come luogo mitico. Accompagna il lettore, non lo istiga, non lo rimbrotta: «guardare è un'abilità che si apprende... Una capacità di cui si diventa lentamente consapevoli». Non a caso l' exergo del secondo capitolo è una frase di John Berger, il re dello sguardo. Il cinema è, infatti, allenamento, che diventa una dipendenza, o meglio, una nostalgia, quella che si prova pensando alle persone care. O un "mondo-altro", su cui salire anche quando si è fuori dalla sala, una stanza mentale, dove si attivano i ricordi delle immagini proiettate e la memoria del nostro corpo rispetto allo schermo: prima fila, in fondo, a destra, a sinistra.
Di memoria e percezione Kinsky aveva parlato anche in un libro sul terremoto in Friuli del 1976 ( Rombo , Iperborea, 2023) con acume e senza retorica identificando il trauma collettivo. Nell'ultimo opera il cordone sotterraneo che tiene insieme tutto è l'infanzia: c'è l'omaggio al padre, che portava ogni tanto lei e i fratelli in «un cinema vicino alla stazione, dove proiettavano un cortometraggio, un film e un cinegiornale a ciclo continuo». Qui avviene la prima esperienza collettiva che poco ha a che fare con la cinefilia. È più che altro un fatto sensoriale e corale: la possibilità di unirsi in qualsiasi momento «allo scarno pubblico, cercarsi un posto al debole chiarore della torcia elettrica della maschera e mettersi a sedere». La bellezza nascosta di poter trascorrere lì l'intera giornata, come rifugio e tana per ripararsi dalle intemperie del meteo, o qualche ora in attesa del treno, tra le nubi di nicotina che fluttuano nella sala, dove stagna un odore stantio. Ciascuno ha un suo ricordo epico legato a una proiezione. Per chi scrive è la visione serale di Un profeta di Jacques Audiard nella vecchia sala-teatro (oggi chiusa) da centinaia di posti a Grado. Fino all'ultimo, sono stata l'unica spettatrice della vasta platea e ho pregato ardentemente di rimanere sola. Ma due minuti prima dell'inizio sono arrivati una coppia e un signore. Pian piano mi sono abituata a combattere l'idea della loro presenza come un'intrusione e a condividere nelle posture fisiche la suspence. Alla fine, siamo usciti silenti e veloci per non incrociare sguardi e commenti. Ciascuno di noi, però, sa che gli altri tre sono stati per due ore "fratelli di cinema".
Per Kinsky la madeleine cinematografica è «la pesante tenda di feltro grezzo all'ingresso, con gli angoli inferiori di pelle o finta pelle che strisciavano sul pavimento di linoleum, la maschera con i capelli arricciati e la faccia stanca, che si preoccupava sempre di trovarci una fila in cui non c'era nessuno». Il padre della scrittrice spesso lasciava i figli al cinema, come se fosse una nanny , e andava a sbrigare delle faccende, trasformando la sala in un luogo di accudimento, a prescindere dal contenuto della pellicola. Al termine, nessuno commentava, ma alla scrittrice è rimasto sempre il sospetto che il padre volesse lasciare ai figli un messaggio attraverso lo schermo. Come nel film in cui si vedeva un treno che attraversava un'immensa pianura, simile a quella vissuta dal padre bambino. Kinsky ha imparato a vivere lo sguardo come una macchina da presa: «La mattina d'inverno come il primo film: un montaggio di diverse prospettive e orientamenti... Passare da una finestra all'altra della casa per vedere il fuori trasformarsi in scorci ... e completare col racconto, scorci che all'esterno, avendo rinunciato alla propria cornice, diventavano punti di riferimento grazie ai quali l'Io che guarda determina la propria posizione».
Il cinema è un elemento di destabilizzazione, un punto di confronto. I famigerati dibattiti dopo la proiezione non sono altro che questo, l'addestramento al punto di vista altrui. «Ogni villaggio un film, mi venne da pensare. Ogni finestra un cinema».