Intervista

MÍNERVUDÓTTIR, LE IMPERFETTE RAGIONI DEL CUORE

Intervista

MÍNERVUDÓTTIR, LE IMPERFETTE RAGIONI DEL CUORE

Data: 12 Giugno 2025

Ingrid Basso intervista Guðrún Eva Mínervudóttir su «Reykjavík, amore» per il manifesto il 16/05/2025.

«Amore, Morte, Riproduzione. Bla, Bla, Bla. Il silenzio è l’unica medicina contro tutto questo». Nell’eterno psicodisordine delle analisi sentimentali non richieste eppure agognate, e delle improbabili spiegazioni causali delle «ragioni del cuore», l’ultima collezione di racconti (Reykjavík, amore, trad. it. di Silvia Cosimini, Iperborea, pp. 256, euro 18) della pluripremiata scrittrice islandese Guðrún Eva Mínervudóttir – già nota in Italia da anni e ora ospite al Salone del Libro di Torino (sabato, Piazzale Oval Sala Bianca, ore 13.45) – agisce come un prezioso lenimento letterario, così discreto da avvicinarsi al silenzio. Cinque «situazioni», per dirla con Sartre, animate nella vita di cinque donne: nessun rimpianto, nessuna recriminazione, solo puro «esserci». Ma spira una brezza di senso, seppur non richiesto, forse per timidezza, quasi per paura o forse solo per un’innocenza che è «l’opposto della rassegnazione, del cinismo e dell’indurimento del cuore».

Dalle sue storie femminili emerge un faticoso equilibrio interiore tra libertà e dipendenza: la libertà sembra diventare fuga reattiva, la dipendenza una soggezione quasi masochistica. Perché nella donna questo dilemma?
Penso che entrambi i sessi, o tutti i generi, affrontino difficoltà nel trovare un equilibrio. Anche gli uomini, come vengono rappresentati nella cultura pop, sono preoccupati di mantenere la propria libertà prima di cedere al matrimonio. Ricerche hanno dimostrato che le donne sono più felici e in salute se restano single, mentre gli uomini lo sono se sposati o conviventi con una donna. Eppure, la cultura contemporanea ci mostra donne disperate per il desiderio di sposarsi. In un certo modo ha senso, se pensiamo a quanto siano vulnerabili durante la gravidanza, il parto e la cura dei figli. È comprensibile che desideri assicurarsi un legame prima di «sacrificarsi sull’altare della natura». Tuttavia, troppo spesso questo si rivela una trappola. Secondo la tradizione, una donna dovrebbe servire e obbedire all’uomo, e tale tradizione spesso ancora persiste, almeno in parte, nelle aspettative sui ruoli all’interno del matrimonio. Ma le cose non sono così semplici, bianco o nero. Concentrarsi solo sul genere però è un modo molto limitato di guardare il mondo. Ho visto anche uomini cadere in trappole terribili e le donne possono essere estremamente violente, così come ci sono forme di violenza anche nei matrimoni omosessuali.

I suoi racconti sono legati da fili quasi impercettibili: si sentirebbe di definire l’opera un romanzo?
Preferisco descrivere il libro come una raccolta di racconti. Ma sono contenta che si notino questi fili quasi trasparenti che collegano alcune storie. Non sono molti, ma servono a ricordarci che, anche se si tratta di storie diverse, si tessono tutte nello stesso mondo. E questo ci rammenta anche che siamo tutti connessi e condividiamo un solo pianeta. Questo per me è importante, perché è facile dimenticare questa connessione e vedere l’umanità – specialmente le persone diverse da noi – come un grande Altro che non ci riguarda personalmente.

L’ambiente, nei suoi racconti, ha un ruolo fondamentale. Lei indugia sugli elementi «muti» del quotidiano, dalla natura agli arredi, facendoli in qualche modo parlare. Come stilisticamente fa interagire questi elementi con i suoi personaggi?
Sono contenta che mi sia stato fatto notare questo aspetto: mi fa vedere il mio libro attraverso gli occhi del lettore. Non ero esattamente consapevole del fatto che gli oggetti inanimati avessero una voce, ma ora che è stato detto, riesco a vederlo anch’io. Mi viene in mente l’armadio pieno della camera da letto nel primo racconto, con i vestiti che strabordano e cadono sul pavimento. La mia intenzione era chiaramente quella di descrivere le cose in modo tale che il lettore potesse visualizzarle nella propria mente ad altissima definizione. Voglio che la mia scrittura sia come una registrazione che cattura tutto: suono, forma, movimento, colore e atmosfera. E anche se le descrizioni non sono prolisse o noiose, chi legge deve avere la sensazione di ricevere ogni singolo dettaglio. Come se fosse lì, a testimoniare tutto con i propri sensi.

L’ambiguità «Austin/Ástin» dice molto: il giovane missionario mormone in Islanda – Austin – il cui nome suona come «Ástin» («amore», in islandese) sembra l’immagine di un equilibrio così perfetto da sembra irreale. Interagisce con i personaggi, ma in fondo non è uno di loro, rimane all’esterno… come l’amore, un semplice concetto che però nella realtà come tale «non esiste».
Ho realmente incontrato Austin a una fermata dell’autobus e l’ho invitato con il suo compagno missionario a casa mia per conoscerli meglio e usarli come personaggi nel mio libro. Non avevano nulla in contrario a essere ritratti in quel modo e hanno fatto del loro meglio per «salvare la mia anima». Ma ora mi chiedo se la presenza di Austin nel libro non sia in realtà una domanda posta in silenzio: e se il concetto di amore romantico, così come lo intendiamo di solito, non sia altro che una forma di culto in cui la maggior parte di noi si ritrova senza pensarci troppo, immersi fin dalla nascita in quell’idea… E se stessimo venerando l’amore romantico (eros) come la forza che tutto conquista (anche se non è così), mentre in realtà i nostri cuori desiderano un amore meno fragile, meno animale e più duraturo (agape)?