Intervista
Un albero di Natale: sogno di un'altra Oslo
Intervista
Un albero di Natale: sogno di un'altra Oslo
Angelo Ferracuti intervista Ingvild Rishøi su La Lettura – Corriere della Sera il 13/10/2024
Salgo sull'autobus 25 che dal quartiere di Majorstuen di Oslo arriva ad Arvoll, una zona verde con villette e prati verdissimi. Ingvild Rishøi abita in una palazzina a ridosso di un bosco. Quando salgo al piano mi fa accomodare in una sala luminosa con un tavolo in legno chiaro da un lato e su quello opposto un divano e due sedie a dondolo; sulla parete di fronte la libreria.È alta e molto magra, un viso espressivo e occhi lucenti. Il suo romanzo d'esordio "Stargate", ora pubblicato in Italia con il titolo "La porta delle stelle" (Iperborea, trad. di Maria Valeria D'Avino), prende il nome da un locale all'uscita della metropolitana di Grønland frequentato da emarginati, vicino al quartiere di Tøyen dove vivono la protagonista del romanzo Ronja, la sorella maggiore Melissa e il padre disoccupato e alcolista. Nonostante lo stato di povertà assoluta, l'uomo ha un rapporto giocoso con le due bambine, che apostrofa con una lingua fantastica, chiamandole «la figlia del brigante», oppure «chiaro di luna», innescando con loro una componente surreale. Durante il periodo che precede il Natale Ronja, la figlia di dieci anni che è anche la voce narrante, grazie al bidello della scuola riesce a trovare al padre un lavoro come venditore di alberi. Per un po' le cose vanno bene, ma quando lui torna dagli amici di bevute e molla il colpo le figlie lo sostituiranno nell'intento di sbarcare il lunario, ma anche con il sogno di addobbare per la prima volta uno di quegli abeti.
È un libro tragico e sognante, dico a Ingvild Rishøi, che mi osserva curiosa mentre beviamo il caffè, un romanzo di magico realismo senza tempo, come "La piccola fiammiferaia" di Andersen, al quale è stato accostato. Una variante contemporanea dei racconti di Natale di Dickens. «È la storia di una ragazzina che lavora vendendo alberi di Natale, una storia così non poteva che diventare una novella natalizia». Ma Rishøi pensava soprattutto ai libri della tradizione scandinava, ad Astrid Lindgren, la madre letteraria di Pippi Calzelunghe , che scrisse un libro con un nome che è lo stesso di quello della sua protagonista, "Ronja. La figlia del brigante". La stessa Ingvild ha fatto questo lavoro durante la pandemia: sullo schermo del pc mostra alcune foto che la ritraggono tutta imbacuccata, il cappello di lana in testa, mentre consegna un albero a un cliente di un centro commerciale. Racconta che prima di scrivere questo romanzo ha attraversato un periodo difficile, otto anni senza pubblicare. «Stavo lavorando a un memoir, un racconto dal vero sull'alcolismo, dove c'erano anche storie di persone a me vicine, ma ho avuto il timore che qualcuno nella mia famiglia non la prendesse bene, così ho deciso di tenerlo nel cassetto. Era un libro angosciante, disperato. Allora ho deciso di trasformarlo in un racconto di finzione, così è arrivata nella mia mente la voce di Ronja, ho iniziato a giocare a interpretare personaggi diversi, come nell'infanzia, mi sono divertita a creare un mondo parallelo, quello dell'immaginazione».
Ingvild Rishøi all'inizio scrive in forma frammentaria, anarchica, nella libertà più assoluta, inseguendo il flusso creativo. «Si tratta di un materiale provvisorio, che poi rimaneggio, perfeziono più tardi, assemblando tutti questi brani come in un puzzle, scartando le parti che non mi servono più; è questo il mio modo di lavorare con la scrittura». Mi mostra un quadernone nero dove ha incollato i pezzi di questa storia. Le confesso di aver letto su una rivista norvegese che alla fine stampa tutti i fogli del dattiloscritto e li distende su questo parquet. Possibile? «Si - ammette - ho bisogno di avere un rapporto fisico con il testo, sorvegliarlo, il mio è un lavoro molto artigianale, non credo nell'ispirazione fatale», però - racconta svagata - prima vuole assicurarsi che le finestre siano ben chiuse, che le correnti d'aria non facciano volare quei fogli.
Per riavvicinarsi intimamente al clima di quella stagione, al buio, alla neve, alle giornate fredde che precedono le feste di Natale, ha ascoltato i canti tradizionali, «nonostante - sorride - fosse primavera inoltrata. Chiudevo tutto, tiravo le tende, accendevo le candele in angoli diversi di questa stanza... ed entravo in quell'atmosfera».
Le confesso che conosco quel locale, lo Stargate, dove l'alcol è il più economico di tutta la Norvegia, frequentato da gente alla deriva. A lei era semplicemente piaciuto il nome così lirico, che forse è nato per via del film fantascientifico di Roland Emmerich, suggerisco, ma lei dice che non c'entra, «a volte la realtà crea strani cortocircuiti».
Dico a Ingvild che nel libro le scene di vita sono filtrate attraverso gli occhi della piccola Ronja, che vive insieme alla sorella un'infanzia tragica dove crudo realismo e immaginazione si mescolano, diventando la cifra profonda del libro, il suo conio più autenticamente letterario. «Si, è vero, in questo libro c'è qualcosa di magico, qualcosa che prima non c'era nella mia letteratura. La vita è fatta di realtà, spesso terribile, insopportabile, e per sopravvivere dobbiamo costruirci anche dei mondi fantastici, sognare, inventarci una vita parallela, e questo stato alcuni lo raggiungono bevendo alcol. Il personaggio del padre nel libro ha tutti e due le componenti, quella del disagio e quella del sogno. Melissa e Ronja hanno imparato a vedere il mondo grazie al padre, è lui che regala alle figlie questo dono di poter cambiare con l'immaginazione la realtà, di poter vivere in un sogno».
Le dico: ma è così diversa la Norvegia di oggi da come la immaginiamo? Nel migliore dei mondi possibili e nel Paese con il welfare più ricco d'Europa racconti una storia di povertà, emarginazione, degrado sociale tipica delle peggiori periferie occidentali. Ingvild Rishøi mi guarda con intensità negli occhi, fa una smorfia di scontento, poi risponde: «Le cose stanno cambiando anche qui, i divari tra le classi sociali sono aumentati, questo ricade sulla vita dei bambini, soprattutto quelli che nascono in famiglie numerose». Il quartiere di Tøyen, dove è ambientato il romanzo, ha uno dei redditi più bassi della Norvegia, anche se nel romanzo la condizione di impoverimento del padre è dovuta all'alcolismo, qualcosa di esclusivamente esistenziale. «Lui non riesce a farsi aiutare a entrare nel sistema di protezione sociale che potrebbe migliorare la sua vita. Ma Ronja e Melissa avrebbero potuto benissimo essere figlie di persone molto ricche, con gli stessi problemi di alcolismo o tossicodipendenza, e abitare nella parte occidentale di Oslo, a Frogner o Majorstuen, con genitori anaffettivi, rancorosi, incapaci di dare loro una stabilità emotiva».
È vero, è proprio così.