Intervista

"I nostri nonni islandesi non dicevano mai di amarsi"

Intervista

"I nostri nonni islandesi non dicevano mai di amarsi"

Data: 16 Ottobre 2024

Laura Pezzino intervista Andri Snær Magnason su Tuttolibri - La Stampa il 12/10/2024

In Legoland, uno dei racconti cardine di "La pietra del gigante" (traduzione di Silvia Cosimini), si legge: «Davvero si viveva più intensamente lottando contro un'anaconda in Venezuela, piuttosto che amando una donna e crescendo un figlio?». Ed è proprio l'eterna lotta tra il divano e l'avventura, la burrasca e la calma piatta, uno dei fiumi che scorrono attraverso questi otto racconti usciti dalla testa di Andri Snær Magnason, già candidato alle presidenziali islandesi nel 2016, già autore di un'orazione funebre per il compianto ghiacciaio Okjökull nonché già geniale autore di quel fondativo esemplare di autobiografia climatica che è "Il tempo e l'acqua" (2019, traduzione di Silvia Cosimini).

Scritto nell'arco di venti anni, "La pietra del gigante" ritrae una generazione, la X, alle prese con le cose della vita (trovare casa, mettere su famiglia, guadagnare più soldi, amarsi, tradirsi), e pur non facendo riferimenti diretti ai dolori del cambiamento climatico (se non nella bellissima storia finale, 2093 ) rappresenta una tappa importante. Cosa lega queste storie?

«Sono tanti campioni di un unico nucleo composto da ricordi d'infanzia, l'adolescenza, il diventare padre, la crisi economica, la mezza età, l'amore nella mezzaetà...Come un ghiacciaio dove i vari strati danno informazioni su epoche diverse».

I protagonisti le somigliano.

«Perché sono tante possibili versioni di me stesso. Tutte tranne una, quella di Legoland : lì sono proprio io».

Spieghi meglio.

«Da bambino Legoland, il parco divertimenti in Danimarca, era il mio sogno. La prima volta che ci sono andato, però, avevo un figlio di due anni e appena perso uno dei miei più cari amici, mi ero ritrovato ad affrontare insieme due fardelli dell'età adulta: la paternità e il lutto. Arrivati a Legoland, in una stanza con milioni di mattoncini, mi sono messo al lavoro e dopo un po' tenevo in mano una scatola nera. Perché l'avevo costruita? Cosa significava? Mi sono accorto che aveva una finestra che permetteva di vederne il centro, dove in maniera del tutto inconscia avevo messo un personaggio, con la sua bella faccia gialla sorridente. Da lì è nato il racconto».

In una storia, il protagonista cerca un nuovo modo di dire "ti amo": "Dev'essere una parola che nessuno userà nelle pubblicità delle automobili, che non verrà mai stampata sugli adesivi per San Valentino. Sarà solo per noi".

«Pensavo al fatto che le generazioni più anziane in Islanda non dicevano mai di amarsi. Non è che non provavano quel sentimento, solo che non sprecavano quella parola che oggi viene invece usata per tutto, anche per la pizza. Mia nonna, per esempio, mi diceva: "Sei uno stronzo!", ma quello che voleva dire veramente era: "Ti voglio bene". Mi sono chiesto, allora, quale parola dobbiamo usare quando intendiamo per davvero l'amore?».

"La pietra del gigante", che dà il titolo alla raccolta, parla del ruolo dell'architettura nel dare forma alla società. Perché questo interesse?

«Da giovane volevo fare l'architetto, negli anni mi hanno chiesto di creare dei testi che descrivessero gli edifici, i collegamenti storici, la loro filosofia. Ora faccio anche parte del team islandese che parteciperà alla prossima Biennale Architettura di Venezia. Ma sono da sempre interessato alla pianificazione urbana perché tocca questioni ambientali e sociali. Per esempio, ho visto molte belle idee restringersi fino a diventare condomini-pollai mentre, contemporaneamente, gli appaltatori facevano costruire per sé ville faraoniche. È stato come assistere in diretta al trasferimento fisico di risorse da alcuni individui ad altri, ed è questo il motivo per cui il protagonista del mio racconto, che fa l'architetto, si sente sopraffatto e si accinge a compiere un gesto dimostrativo».

Nel libro menziona più volte la minaccia nucleare.

«Da ragazzo ero certo che la bomba sarebbe esplosa! Ho quindi messo in relazione quella paura con quella nei confronti del cambiamento climatico che la mia generazione, per esempio, non prende abbastanza sul serio. Il ragionamento cinico è più o meno questo: "Doveva esplodere l'atomica, dovevamo morire tutti di Aids, pensavamo che il mondo sarebbe finito per il buco nell'ozono e così non è stato. Quindi perché col riscaldamento globale dovrebbe andare diversamente?". Il punto è che se quelle catastrofi non si sono verificate è perché l'essere umano ha fatto qualcosa perché non si verificassero».

Come fa a convivere con il pensiero della catastrofe?

«Penso ai miei nonni, nati poco dopo la Prima guerra mondiale e passati attraverso la Seconda. Penso al loro senso del sarcasmo e della gratitudine, a quel tipo di visione a lungo termine e alla convinzione che in fondo le persone sono buone, alla fede nel progresso e nel potere dell'imparare dai propri errori. E dopo tanti anni di attivismo, con questi racconti ho sentito la necessità di fuggire da certi pensieri esteriori e di concentrarmi sulle cose interiori. La crisi che attraversiamo non è solo tecnologica, ma anche spirituale».

Lei è religioso? «Non convenzionalmente. La mia è piuttosto una sensazione che il mondo non sia solo una coincidenza di atomi e che in giro ci siano forze che non possiamo davvero spiegare. Ma ci vorrebbe un altro libro per parlare di tutto questo».


In foto: Andri Snær Magnason