Approfondimento

I TIBETANI SI INCENDIANO E SPAVENTANO LA CINA

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I TIBETANI SI INCENDIANO E SPAVENTANO LA CINA

Data: 16 Ottobre 2024

Marco Del Corona recensisce «I mangiatori di Buddha» di Barbara Demick (traduzione di Katia Bagnoli) su La Lettura il 15/09/2024

Una faglia doppia separa il Tibet dalla Cina. La geografia, sì: cinto a sud dall'Himalaya, l'altopiano si sporge a est e a nord su distese che non sono sue. Ma a tenere distinte due culture, nonostante i punti di contatto, è la storia: un'alternarsi di pace e di scossoni bellici, compreso il sacco tibetano della capitale cinese Chang'an (oggi Xi'an) nel 763 per un paio di settimane. Quando però il passato si fa presente e diventa cronaca, si spalanca un abisso. Nel 1951 l'occupazione del Tibet da parte dei comunisti di Mao Zedong, nel '59 la fuga in India del Dalai Lama, leader spirituale e all'epoca anche politico, varie ondate di incidenti (nel 2008 gli ultimi) fino al 27 febbraio 2009. Fu il giorno in cui un monaco buddhista si diede fuoco in una città tibetana, primo di una lunga serie di atti di autocremazione, oltre 150, con un picco nel 2012 (un'ottantina di episodi) ma proseguiti negli anni successivi.

Quella città si chiama Ngaba, in cinese Aba, e appartiene alla porzione tibetana del Sichuan. Il Tibet storico, infatti, si estendeva anche su parti consistenti delle province del Gansu, del Qinghai e dello Yunnan: fu Mao a ridisegnare le frontiere amministrative di un'area che, da sola, avrebbe costituito un quarto della Repubblica popolare; sapeva che, frammentandola, ne avrebbe fiaccato le velleità indipendentiste. Ngaba, storicamente retta da una dinastia di re rispettati, fu il teatro del primo contatto tra comunisti e abitanti dell'altipiano negli anni Trenta, quando i soldati dell'Armata rossa, affamati, entrarono nei monasteri e si nutrirono delle statuette votive impastate con farina d'orzo e burro di yak. Il gesto, dalla carica simbolica potente, ha innescato il reportage di Barbara Demick, I mangiatori di Buddha, uscito 4 anni fa negli Usa e ora tradotto.


Ngaba, epicentro del malcontento tibetano, è il punto di osservazione scelto da Demick per dar conto del tormentatissimo rapporto tra i tibetani e la Cina. La giornalista ha visitato la zona più volte anche quand'era vietato andarci. Il libro raccoglie le voci di chi è rimasto e di chi se n'è andato, di chi ha visto i propri cari morire e di chi cercava soltanto un modo di convivere con l'inesorabile sinizzazione. Se «a metà degli anni Ottanta Ngaba sembrava una città di frontiera sotto l'effetto degli steroidi», oggi il progresso su misura degli han (l'etnia maggioritaria della Cina) è cosa fatta.


Siamo in una terra dove «i confini contavano meno della lealtà». Nel suo devoto popolo nomade convivono «due qualità opposte, la misericordia e la ferocia», con buona pace delle edulcorate e idealizzate visioni occidentali del buddhismo lamaista. Demick registra le limitazioni imposte dal regime di Pechino, a partire dal diritto di una scolarizzazione in lingua tibetana, né sorvola sullo scempio dell'ambiente, in linea con il precetto maoista del «rifare la natura». Non dimentica, poi, di ripercorrere episodi dimenticati (un monastero raso al suolo dall'aviazione nel '56) e persino paradossi, come quando il caos della Rivoluzione culturale consentì ai tibetani una parentesi di autogoverno.


Demick contestualizza le autocremazioni: «L'immolazione ha una lunga storia tra i buddhisti cinesi, che la considerano un modo per dimostrare la loro devozione», per i tibetani invece quella pratica, «e il suicidio in generale, erano tabù». Il dramma ha toccato meno Lhasa rispetto a Ngaba ma ha lacerato la diaspora tibetana. Lo stesso Dalai Lama si è trovato investito dal dilemma delle immolazioni: «Se dicessi qualcosa di positivo, i cinesi sarebbero pronti ad accusarmi» ma «se dicessi qualcosa di negativo, sarebbe un grande dolore per i famigliari di queste persone. Hanno sacrificato la loro vita. Non è facile»...


Nell'indagare le motivazioni dei religiosi e dei laici che si sono tolti la vita, l'autrice ha il merito di sollecitare attenzione sul caso del Tibet, la cui visibilità nel mondo cala in modo inversamente proporzionale all'influenza globale della Cina. Demick nota che gli esuli «in maggioranza sono persone normali che speravano di vivere una vita tranquilla e felice nel Tibet cinese, senza dover fare scelte impossibili tra fede, famiglia e patria»: i tibetani, cioè, «vorrebbero solo che il governo offrisse loro gli stessi termini del patto che ha sottoscritto con gli han», benessere, la libertà di movimento e di studiare all'estero, rispetto per la religione e per la guida spirituale, il Dalai Lama. Dice un uomo d'affari di Ngaba incensurato: «Ho tutto quello che potrei desiderare dalla vita, tranne la libertà».


Resta sullo sfondo il tema del rapporto problematico della Cina urbanizzata e borghese di Xi Jinping con il sacro (buddhista, islamico o cristiano che sia). In Cina oggi le manifestazioni di spiritualità vengono ricondotte dalle autorità a una dimensione politica e alle categorie del «separatismo» e/o della «sovversione». Modi opposti di «mangiare il Buddha». Del Buddha c'è chi fa il cibo della propria spinta al trascendente e chi non può far altro che divorare il simulacro, perché ha paura di ciò che non si vede.