Approfondimento
GLI INCERTI CONFINI DEL LINGUAGGIO
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GLI INCERTI CONFINI DEL LINGUAGGIO
Claudia Bruno recensisce, tra gli altri, «Stranieri a noi stessi» di Rachel Aviv (trad. di Claudia Durastanti), Il Manifesto - 5 luglio 2024.
Un percorso di letture al centro degli straniamenti esistenziali che restano disabitati dalle parole. Tra memoir e romanzi di recente pubblicazione, seguendo le scritture e le esperienza di Eva Meijer, Rachel Aviv, Claudia Ulloa Donoso e Sheila Heti. Dalla malinconia alla depressione, tra viaggi dentro e fuori di sé. Dalla rappresentazione anatomica antica all'osservazione fisica di paesaggi materiali, le protagoniste dei libri si misurano con posture extraumane e oracolari.Se osservassimo la malinconia attraverso il linguaggio potremmo dire che rassomiglia all'amore, la maggior parte delle volte, le parole che usiamo per nominarla si rivelano inappropriate a descriverla. Oggi la chiameremmo depressione, liberandoci dell'immagine della «bile nera» così cara all'anatomia antica e prendendo in prestito una parola più recente, che ricalca invece l'osservazione fisica di paesaggi materiali, a significare uno smottamento. Nel suo «I limiti del mio linguaggio« », piccola indagine filosofica sulla depressione (Nottetempo, pp. 120, euro 15, traduzione di Chiara Nardo), la scrittrice e filosofa olandese Eva Meijer ne fornisce una definizione geografica - «immagina di camminare in un bosco» scrive, «quando ti volti non ricordi più da dove sei venuto. Non hai punti di riferimento. Attorno a te lo spazio cambia, si ingrandisce, e tu ti fai più piccolo. Non torni più a casa, rimani sospeso in questo momento per sempre». Le persone depresse «non coincidono più automaticamente con se stesse» scrive Meijer, è così che sul retro della coscienza s'innesta come un principio di scollamento dal proprio nucleo, sempre ammesso che ne sia esistito uno. Non si tratta di un destino, né semplicemente di un incidente: alla vita non tutti si abituano, «alcuni non imparano mai». È così che può accadere di sentirsi «sprofondare in una melma invisibile», lasciarsi trascinare nella terra «come per un eccesso di gravità». Meijer racconta di aver cominciato a soli quattordici anni; certi viaggi iniziano molto presto, sanno come durare per tutta una vita. «Spesso mi sento estranea a me stessa e qualche volta, di notte, c'è nell'aria un'angoscia di fondo che si insinua nei miei sogni, mi tiene sveglia» scrive mentre strappa e ricompone in un collage le pagine di scrittrici e filosofi in quella che da subito si presenta come una dissertazione rigorosamente personale articolata intorno a un'assenza.
A mancare è «un linguaggio esistenziale ordinario per parlare della sofferenza» direbbe Bhargavi, figlia di una delle protagoniste delle storie raccolte dalla giornalista americana Rachel Aviv nel libro «Stranieri a noi stessi» (Iperborea, pp. 288, euro 19, traduzione di Claudia Durastanti), dove a diverse latitudini più la lingua della vita diventa incomprensibile più la scrittura assume il ruolo di strumento di autosignificazione al cospetto di una diagnosi di «malattia mentale». Laura, tra le protagoniste della raccolta, studentessa modello ad Harvard negli anni dieci del duemila che parla di sé come se si trattasse di una sconosciuta, a un certo punto trova sollievo in una comunità online che inventa parole per descrivere come i farmaci possono trasformare i sentimenti - neuroemozione, un'emozione tanto forte quanto sconnessa dalla realtà; distalgia, disperazione per il fatto che la propria vita è stata futile. È la cultura a «modellare i copioni che seguiamo per esprimere la nostra angoscia» scrive Aviv in un'analisi che lucidamente fa brillare le verità importanti, e così le parole che usiamo per raccontare una storia paradossalmente possono influenzarne il corso.
Aviv cita Bell Hooks per mostrare come questo si traduce se proviamo a decolonizzare lo sguardo: parlare dei traumi utilizzando il linguaggio della malattia mentale non vale per forza e non vale per tutti; per le persone nere potrebbe addirittura portare a patologizzare esperienze validandone la subordinazione. «Sono sopravvissuta gli aspetti più scuri di me stessa. Quello che ho fatto e dove sono stata non coincidono con chi sono», racconta in queste pagine Naomi, ragazza nera del Minnesota finita in carcere dopo essersi gettata nel Mississippi con i suoi due figli gridando «libertà». Ci sono parole che come le pillole sanno depositarsi sulla lingua alla maniera di ostie sacre, a volte sono l'unico modo per restare ancorati a una versione impossibile di sé, in un processo di continuo straniamento che richiede una traduzione incessante.
«Ci muoviamo a spirale dentro di noi avvolgendoci in ciò che siamo, abitandoci a ritroso, percorrendo il cammino inverso di ciò che siamo stati» bisbiglia la protagonista del romanzo «Ho ucciso un cane in Romania» (Polidoro editore, pp. 432, euro 20, traduzione di Massimiliano Bonatto) della scrittrice peruviana Claudia Ulloa Donoso, un'insegnante di norvegese dipendente dalle benzodiazepine, che si ritrova in viaggio a bordo di una Dacia con il suo amico-studente sulle strade di un paese straniero, alla continua ricerca di una «calma chimica». Nella luce artificiale delle notti scambierà vincoli di sangue ed emoji, tra sigarette e musiche balcaniche sullo sfondo di uno stordimento permanente. «Essere viva era un disagio che mi destabilizzava» confessa la donna nel suo peregrinare da un letto all'altro dopo essere stata strappata al letto iniziale del suo appartamento chiuso, imbevuto di «giorni lattiginosi», che mai avrebbe voluto lasciare. A migliaia di chilometri di distanza, nel cortile di una casa di zingari si consegnerà a un mutismo benefico, al cospetto di un branco di cani randagi che la cureranno a forza di «vocali aperte mescolate a zanne e saliva».
Ci sono corpi che richiedono silenzi organici, e allora perdere il discorso può significare regolarne i meccanismi. «Nelle parole non dette c'era un presentimento» racconta la protagonista del romanzo. «Quel presentimento era la comprensione in sé, la comprensione - e non solo la rivelazione - del mistero. Capivo e comprendevo tutto». Si può perdere se stessi, restare abbandonati da qualcosa che sa come lasciarci disabitati, e in quel disfacimento vedere finalmente il fondo delle cose, la loro indiscutibile limpidezza.
È il «colore puro» di cui va ossessivamente in cerca Mira, protagonista dell'ultimo romanzo della scrittrice canadese Sheila Heti; una ragazza alle prese con la perdita di un padre e l'incontro di un amore, Annie, che nei suoi moti introversi trascende a tal punto il linguaggio da ritrovarsi dentro una foglia sulle rive di un lago che assomiglia a un grande occhio aperto - e sì che «se avesse saputo di essere grande quanto una foglia non avrebbe perso tempo con certe aspirazioni, avrebbe fatto di tutto per restare piccola». In «Colore puro» (Il Saggiatore, pp. 240, euro 18, traduzione di Federica Aceto) Heti affida a questa postura extraumana, per molti versi oracolare, racchiusa nel guscio di una memoria inventata per la sua stessa natura d'essere illeggibile, un flusso di coscienza alterato dal sentimento della fine che diventa destino comune di tutte le creature - «vivevamo sospesi in una sorta di nebbia, una depressione così angusta e profonda che non ci rendevamo nemmeno conto di provarla». Se a volte è spaventoso come stare su un aereo che cade vorticando, altre assume la valenza di una benedizione - «è spettacolare da queste parti, nei pressi di Saturno» dice Mira a un certo punto «tutto è così nero, così giusto e così paziente; c'è una totale assenza di desiderio».
Bisogna avere una ghiacciaia al posto del cuore per essere all'altezza del compito, conservare il colore puro, osservarlo scintillare come una pietra in attesa che del mondo si compia una «seconda bozza». Sul come bisognerà scoprirlo da sé, provando e riprovando a riavvolgere il filo quando qualcuno ce ne porgerà l'estremo, riportando alle cose parole che nessun altro avrebbe potuto tenere vicine. D'altronde non c'è nessuno sulla terra a cui poter rivolgere certe domande, ci ricorda Heti con la sua scrittura rivelatoria e sorgiva, non siamo stati creati per sapere tutto. Ed è vero «sono tantissime le cose che puoi fare con il corpo se riesci a farlo rilassare e a piegarlo perché si adatti alla forma dell'universo», ma le nostre parti esterne sono solo il riflesso di quello che c'è dentro, il colore è rivolto all'interno, e anche se «abbiamo completamente perso di vista la superficie», la vita continuerà a fare i suoi giochetti, senza mai veramente dare e mai veramente togliere «ma sempre tutte e due le cose insieme». Se qualcuno verrà a guardarci da molto vicino saranno gli dei che ci spiano attraverso i suoi occhi, «per vedere come sono gli umani in questa bozza del mondo» e «farli meglio la prossima volta».