Approfondimento
LE AMBIZIONI GELANO A STOCCOLMA
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LE AMBIZIONI GELANO A STOCCOLMA
Vanni Santoni recensisce «La giovinezza di Martin Birck» di Hjalmar Söderberg (trad. di Massimo Ciavarolo), La Lettura - 16 giugno 2024.
Hjalmar Söderberg pubblicò nel 1901 un romanzo di formazione che segnò la letteratura svedese. Il suo Martin Birck aspira a diventare artista ma deve fare i conti con la propria mediocrità e con una realtà che lascia poco spazio ai sogni.Quando August Strindberg, indiscusso signore della letteratura svedese tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, volle invitare alcuni promettenti giovani autori a casa propria, continuava a riferirsi a Hjalmar Söderberg chiamandolo Martin Birck, come il protagonista del suo romanzo. Era assai probabile che, semplicemente, ne avesse dimenticato il nome, ma con una certa nobiltà d'animo, fors'anche velata d'ironia, Söderberg se ne disse onorato: significava che Strindberg conosceva almeno il titolo di un suo lavoro.
«La giovinezza di Martin Birck», del 1901, era il secondo romanzo di Söderberg, e quello che lo avrebbe lanciato nel mondo letterario svedese dell'epoca, laddove la consacrazione sarebbe giunta con «Il dottor Glas», uscito nel 1905 e capace di destare un certo scandalo a causa degli argomenti a cui il medico eponimo dedicava i propri pensieri: aborto, eutanasia, violenza... Non è il caso de «La giovinezza di Martin Birck», dove una latente tensione esistenziale non impedisce all'autore di muoversi in campi in fin dei conti ordinari: il romanzo, che si può intuire semi-autobiografico, racconta la vita di un aspirante poeta e scrittore a Stoccolma, e lo fa in tre atti, corrispondenti all'infanzia, alla giovinezza da neo-diplomato e alla prima età adulta.
L'intera narrazione è improntata a un naturalismo che cerca di evitare ogni fronzolo, e trova la quadra dalla seconda parte, poiché la prima, intitolata «La vecchia strada» e ispirata in modo più aderente delle altre alla vita dell'autore, non riesce a staccarsi del tutto da una certa romanticizzazione dell'infanzia, che a sua volta sfocia nell'oleografia, nonostante lo stile söderberghiano faccia di tutto per evitarlo. È invece da «Il berretto bianco» in poi (il riferimento è al cappello, simile a quello dei capitani di vascello, che gli studenti scandinavi indossano al momento del diploma) che «La giovinezza di Martin Birck», e con essa, in prospettiva, l'intera poetica di Söderberg, prende sostanza.
Al giovane Birck piacerebbe pensarsi come un romantico, ma sa di essere in fondo un tipo piuttosto ordinario; gli piacerebbe essere un radicale, ma sa di essere in fondo un borghese; gli piacerebbe essere un artista estremo, ma la sua visione del mondo è improntata al buon senso... Addirittura sogna di essere depresso - e sono tra i passaggi più salaci: «Sarebbe stato invidiato dagli uomini e desiderato dalle donne, ma di tutte le donne al mondo ne avrebbe amata una sola, e questa avrebbe amato un altro. Quell'amore infelice avrebbe aggiunto amarezza e profondità al suo pensiero e ali alla sua poesia. Ma aveva anche la vaga sensazione che mentre era alla ricerca della verità, avrebbe trovato solo verità parziali e nel donarle all'umanità nei versi più meravigliosi di qualsiasi musica, o in una prosa tersa e fredda, con parole taglienti come denti aguzzi, avrebbe disprezzato sé stesso per mietere gloria e ricchezze dalle briciole che aveva scoperto per caso mentre era alla ricerca di qualcos'altro. E quel disprezzo di sé gli avrebbe corroso l'anima e lo avrebbe reso un guscio vuoto...» - ma più che depresso, il giovane Birck appare solo pigro.
Queste caratteristiche del protagonista, all'apparenza poco attraenti, rendono invece il testo söderberghiano assai particolare, rispetto a tanti romanzi di formazione più o meno coevi, dove il protagonista è in genere presentato, se non come virtuoso, almeno come qualcuno mosso da passioni brucianti o vertiginosi abissi interiori. Si pensi a «I quaderni di Malte Laurids Brigge» di Rainer Maria Rilke o al Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce: con gli eroi di quei romanzi, il buon Martin Birck ha in comune solo le ambizioni letterarie e la percezione del conformismo della società attorno a lui; ma per il resto è egli stesso un conformista, e si vergogna di ogni suo tentativo di muoversi sopra le righe. Lontanissimi, poi, appaiono i romantici come il Werther di Goethe o il suo tardo erede svedese, quel Niels Lyhne di Jens Peter Jacobsen che pure mostra un'evidente influenza formale sul lavoro di Söderberg (è in effetti anche citato nel testo come romanzo preferito del protagonista e del suo miglior amico).
«Arrivato a guadagnarsi il berretto bianco - scrive Söderberg - la prima preoccupazione di Martin Birck fu di entrare in una tabaccheria a comprarsi un bastone da passeggio e un mazzetto di sigarette», e dopo averlo fatto si spinge a baciare la mano della tabaccaia, ma poi fugge preso dall'imbarazzo; e quando pensa alla carriera poetica, la mente gli va a gente come Esaias Tegnér, vescovo e professore, o Carl Michael Bellman, che lavorava presso le lotterie di Stato. Gente con un impiego sicuro, e infatti anche Birck si preoccupa per prima cosa del posto fisso, paventando i pericoli di una professione come lo scrittore.
Anche qua si può lasciare il passo alle gustose parole dell'autore: «Quando qualcuno domanda a un giovane appena diplomato che cosa voglia fare, questi non deve dire: lo scrittore. Tutti si girerebbero dall'altra parte per nascondere una risata. Può rispondere: l'avvocato, il pittore, il musicista, perché a tutte quelle professioni ci si può preparare in pubbliche istituzioni, e già mentre si studia si ha uno strapuntino nella società su cui sedersi, una casella in cui inserirsi, e si è già qualcuno: uno studente universitario, un allievo dell'accademia di belle arti o del conservatorio. Non è molto, ma è pur sempre una zolletta di zucchero da infilare in bocca ai ficcanaso e un futuro in un certo senso comprensibile [...]. Ma chi vuol fare lo scrittore non è altro che oggetto di derisione davanti a Dio e agli uomini, finché non ottiene riconoscimenti e fama». E infatti il padre di Martin Birck, su richiesta del figlio, «già il giorno dopo si attivò per parlare con i suoi conoscenti nei più diversi enti pubblici e lo aiutò a compilare le domande».
Siamo molto lontani dagli afflati esistenziali propri di un certo Bildungsroman , e se non fosse evidente da stile e forma che l'intento di Söderberg è la ricerca del vero, si potrebbe quasi pensare a una volontà parodica. Ma no, il giovane Birck è proprio così; pure, finirà - ed eccoci alla terza parte, «La notte d'inverno» - per trovarsi schiacciato dalla consapevolezza della propria mediocrità, e dall'ineludibile conflitto tra la realtà dei fatti e le sue ben diverse aspirazioni.
La notte d'inverno è buia e lunga - specie a Stoccolma, che per tutto il libro Söderberg descrive con sapienza e acume - e così quella dell'anima del protagonista, che finirà per avvicinarsi al nichilismo, al decadentismo e pure a un fosco erotismo, ma senza mai trovare il titanismo apocalittico di un Jean des Esseintes, il protagonista di «À rebours» di Joris-Karl Huysmans. In fondo, pare dirci Birck, la realtà finisce sempre per deludere, e si salva, eventualmente, solo chi «pone il proprio centro di gravità nel pensiero», così da star fuori da ogni assurda meta umana. Ma forse sono solo scuse che Martin Birck dà a sé stesso, e il bello è proprio la sincerità con cui Söderberg le riferisce in quanto tali.