Approfondimento
«STRANIERI A NOI STESSI» E IL VIAGGIO ATTRAVERSO LA PSICHE UMANA
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«STRANIERI A NOI STESSI» E IL VIAGGIO ATTRAVERSO LA PSICHE UMANA
La recensione de «Stranieri a noi stessi» di Rachel Aviv (trad. di C. Durastanti), pubblicata su La Balena Bianca, Diletta Capocchi - 14 giugno 2024.
Troviamo l’unico libro di Rachel Aviv, giornalista statunitense del «The New Yorker», nella sezione “saggistica narrativa” della casa editrice Iperborea, con i seguenti tag: infanzia, malattia, salute mentale. Pubblicato in Italia all’inizio del 2024 e tradotto da Claudia Durastanti (che di estraneità alla società e ai corpi canonici sa qualcosa), «Stranieri a noi stessi» è in effetti questo, ma non solo: è un viaggio – con zaino pesante in spalla – attraverso la mente di cinque esemplari umani, la cui prima tappa è segnata dal racconto di ciò che ad Aviv è accaduto a sei anni. L’autrice riporta che «tendenzialmente rifiutò di mangiare e bere», notando «le reazioni degli adulti intorno a sé e il suo vago senso di orgoglio» e avendo «preso l’idea [del rifiuto del cibo] dallo Yom Kippur» (pag. 11): in sintesi, le viene diagnosticata una forma di anoressia nervosa. Si ritiene che sia stata, ai tempi, la paziente più giovane del paese.Aviv racconta i giorni del suo ricovero ospedaliero – e la sua amicizia con una ragazzina che fisicamente le somigliava molto, Hava – e della veloce regressione dei suoi sintomi, mentre prende la rincorsa per lanciarsi nelle “carriere” (così vengono chiamati i (de)corsi delle malattie mentali) di altri uomini e donne. Incontriamo Ray, medico caduto in disgrazia e con un rapporto complesso con gli antidepressivi; Bapu, donna indiana venerata negli ashram e con una diagnosi di schizofrenia; Naomi, giovane donna nera, cresciuta in un quartiere popolare e madre di quattro figli; Laura, promettente studentessa dai brillanti risultati accademici e un sacco di punti interrogativi sulla propria identità; e infine di nuovo Hava, la cui “carriera” nell’anoressia ha avuto esiti molto diversi da quella di Aviv. Le loro storie si intrecciano a citazioni di medici, psichiatri, ricercatori, in una commistione in bilico fra il saggio divulgativo e la narrazione, con esiti a tratti quasi romanzeschi.
Il filosofo Ian Hacking usa il termine “effetto circolare” per descrivere il modo in cui le persone rimangono intrappolate in storie sulla malattia che si autoavverano. Una nuova diagnosi può cambiare «lo spazio di possibilità per senso che si ha di sé» (pag. 28).
Quanto può essere confortante e liberatoria una diagnosi quando tutto ciò che sentiamo è un vuoto dentro, un malessere la cui origine non è percepita come immediatamente fisica? Può incasellare il caos, inquadrare la situazione, riportare nel binarismo di causa-effetto. Ma quanto questa diagnosi incide sul senso di sé, sull’identità, e quanta umanità scompare dietro un’etichetta? Nelle storie raccontate da Aviv, specialmente in quella di Ray e di Hava, ci si imbatte spesso in questa domanda. Il lettore si ritrova incastrato quanto i personaggi nell’intercapedine fra definizione e limitazione.
Non solo: anche il linguaggio per descrivere la malattia mentale spesso appare inadeguato e castrante. Questo accade specialmente quando nel libro si prendono in esame anche aspetti socio-culturali legati alla salute mentale: la storia forse più emblematica in questo caso è quella di Naomi, cresciuta nelle Robert Taylor Homes a Chicago, un complesso di edilizia popolare dalle dimensioni mostruose, in prossimità di una stazione, senza spazi verdi attorno. Gli ospiti di queste case erano quasi ventisettemila persone. La maggior parte di loro non era bianca e aveva un legame – una diagnosi o un parente con – malattie mentali.
R. D. Laing e Thomas Szazd suggerirono che la malattia mentale fosse una risposta naturale alla follia della società contemporanea. Ma la domanda «sono io a essere pazzo o la società?» sminuisce la realtà della disabilità mentale e presume l’impossibile: che il sé possa essere separato in maniera netta dalla società che lo forma (p. 213).
Sarebbe da una parte bello se un saggio sul rapporto fra la psicologia e il racconto del sé fornisse risposte e non domande. Una risposta certamente plausibile è un carrolliano “qui siamo tutti matti”. Purtroppo fuori dalla tana del Bianconiglio non tutto è così semplice: definirci collettivamente pazzi nel tentativo di destigmatizzare la malattia mentale può finire per sminuire l’esperienza di coloro che si ritrovano con una diagnosi di disabilità.
Aviv ci mette di fronte a due messaggi universali, veri di certo non solo per coloro che hanno “ufficialmente” una malattia mentale: che la nostra conoscenza della mente umana è limitata nella dimensione e immensa nella varietà di situazioni (quindi impossibile da perfezionare) e che tutti noi abbiamo bisogno di raccontare e farci raccontare per afferrare il senso di chi siamo.
L’opera di Aviv è decisamente particolare e accattivante, capace al contempo di delineare storie personali facendo percepire le loro ombre come universali e intrecciandole con definizioni e citazioni mediche, come trama e ordito di una grande tela. «Stranieri a noi stessi» è un viaggio in una sorta di psiche umana collettiva, e pertanto non è possibile viaggiare leggeri.