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«L'amica scimmia»: un racconto di Ia Genberg
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«L'amica scimmia»: un racconto di Ia Genberg
Il racconto di Ia Genberg, autrice de «I dettagli», è stato pubblicato su La Lettura il 25 febbraio 2024.
A volte, quando racconto di mia madre, la gente mi chiede come abbia fatto a superare quel periodo: l'estate opprimente, la vecchia casa, il paesino dove non saremmo rimasti. Come abbia fatto a sopravvivere. Di solito racconto una bugia, dico che le infermiere erano così gentili che continuarono a tornare, anche solo per stare un po' con me. Certe volte dico che mio padre era fantastico - e sì, anche questa è una bugia - che aveva tutto il tempo e l'energia di questo mondo. Oppure che di notte chiamavo un telefono amico, o che avevo un sacco di persone intorno con cui parlare, o anche solo che per essere una ragazzina di dodici anni avevo una forza d'animo e una consapevolezza fuori dal comune. Sono queste le cose che racconto di solito - ma non sono la verità, perché la verità è che fu una scimmia a salvarmi quell'estate, una scimmia che mi tirò fuori dal buio di quella casa verso un mondo fatto di emozioni e di colori, di euforia e di dolore incontrollabile. E di lacrime. Tutto quello che mi serviva per continuare a vivere. Una scimmia, o meglio, il racconto di una scimmia. Jane, così si chiamava.Dopo il funerale ce ne saremmo andati, papà me lo aveva promesso. In fondo quella era la casa di mamma, era stata lei a voler vivere i suoi ultimi giorni in campagna, con il panorama al di là della finestra e il mare che non si sentiva mai, ma di cui si avvertiva la presenza. Saremmo tornati in città, era scontato, eppure - chissà come - passò un'estate intera. Papà aveva un sacco di lavoro in ufficio, una miriade di progetti da finire, e ogni sera quando rientrava si strappava via la cravatta come se avesse un cappio al collo e mi guardava, arreso. Avevamo così tante cose da dirci, ma in mezzo a noi c'era una landa desolata, come dopo un incendio. È così che funziona, credo, chi muore a volte si porta via qualcosa di quelli che restano. Senza contare che la casa aveva urgente bisogno di lavori, diceva papà. Altrimenti non se la sarebbe comprata nessuno. Non era solo per quel pungente odore di ospedale che ancora aleggiava in camera della mamma, c'erano un sacco di altre cose da sistemare. Le piastrelle incrinate della cucina, lo scarico intasato della doccia, la cappa che non funzionava più, le porte da stuccare e riverniciare, le assi del sottotetto che erano marcite. Tutte le finestre avevano bisogno di nuove guarnizioni, e l'ingresso di una nuova carta da parati. Quello schifo di casa non era altro che un rudere, diceva papà .
Ecco perché quell'estate Malcolm veniva da noi tutti i giorni - quasi tutti i giorni, in realtà. Ristrutturare case non era davvero il suo lavoro, ma a sentire papà era una di quelle persone che riescono ad aggiustare di tutto. Malcolm era il migliore amico della mamma dai tempi della gioventù: avevano vissuto insieme a Brooklyn, facevano gli artisti, giravano la California in autostop e Israele a piedi, e in Messico avevano provato i funghetti magici. Malcolm aveva preso in affitto una casetta a schiera a qualche chilometro da noi per stare vicino alla mamma nelle ultime settimane, e poi continuò a tornare per tutta l'estate. Il suo vecchio Bulli era parcheggiato davanti a casa nostra quasi ogni mattina.
Fin dal primo giorno mi parlò di Jane, una scimmia che si teneva in casa come animale da compagnia.
«Una scimmia?», dissi io.
«Proprio così».
«E perché l'hai chiamata Jane?».
«Per via della canzone. La conosci?».
«Quale canzone?».
Per tutta risposta Malcolm andò a rovistare in una delle cassette di plastica verdi sotto lo stereo, dove la mamma teneva i dischi, e ne tirò fuori uno che aveva in copertina una stazione della metropolitana, con un fumo rosa che saliva dalla scala. Mise su la canzone giusta: «Sweet Jane». Lui e la mamma avevano conosciuto i ragazzi della band quando abitavano a New York, mi disse. E appena aveva fatto sentire quella canzone alla scimmia lei si era messa a battere le mani. Ecco perché l'aveva chiamata Jane.
«La puoi portare qui con te?», gli chiesi.
«Certo», rispose lui.
«La puoi portare subito domani?».
«Naturalmente».
«Così la posso vedere da vicino? E magari farle una carezza?».
«Nessun problema», disse Malcolm.
«Domani la porto con me. Ci divertiremo, vedrai».
Il giorno dopo saltò fuori che Jane non poteva uscire perché si era presa un raffreddore, ma in compenso Malcolm iniziò a parlarmi di lei. Eravamo seduti al tavolo della cucina, io con un succo di frutta, lui con una tazza di caffè. La scatola degli attrezzi era rimasta aperta per terra, vicino al lavello. Nessuno andava di fretta, quell'estate. Il sole entrava dalla finestra, il tempo scorreva lento, colloso come una caramella mou.
La verità era che Jane veniva da una giungla vicino all'equatore, ma era stata catturata da un bracconiere. Malcolm mi raccontò che si potevano fare un sacco di soldi strappando gli animali al loro habitat naturale per portarli nel mondo civilizzato. Soprattutto le scimmie, perché imparavano cose nuove in un baleno e si adattavano facilmente agli umani. Dopo molte peripezie Jane era finita su una nave da crociera che viaggiava nel Mediterraneo, dove i passeggeri potevano guardarla dentro la sua gabbia, farle i dispetti e darle da mangiare banane e cioccolatini. C'era chi cercava di ingozzarla di alcolici, o addirittura di farla fumare. Malcolm lavorava nelle cucine della nave, e una notte, mentre erano all'ancora davanti a un'isola greca, aveva forzato il lucchetto della gabbia e nascosto Jane in un grosso baule, per poi mettersi in viaggio verso nord attraversando mezza Europa. E ora Jane viveva insieme a lui nella casetta a schiera.
«Dopo l'estate però la riporto indietro», disse Malcolm.
«Sulla nave?».
«Neanche per sogno. Nella giungla, ovviamente».
«Ma come pensi di fare?», gli chiesi.
Malcolm mi guardò e scosse la testa.
«Ci inventeremo qualcosa. Io e te», rispose.
Con l'aiuto di uno scalpello staccò le vecchie piastrelle incrinate sopra lo scolatoio. Poi spalmò una pasta bianca sul muro e ci attaccò sopra le piastrelle nuove. Verso l'ora di pranzo dovette andar via.
«Domani però la porti con te, Jane. Vero?», dissi io.
Eravamo nell'ingresso, e rimasi a guardarlo mentre si infilava le scarpe.
«Ma certo», mi rispose. «Domani Jane verrà con me».
Quella notte pensai a lei ogni volta che mi svegliavo. Pensavo che l'avrei vista, che avrei potuto tenerla in braccio, che si sarebbe messa a girare per la nostra vecchia casa cadente con i suoi fantastici piedini da scimmia, infilando il naso dappertutto. Magari l'avremmo lasciata uscire per farle esplorare il nostro giardino, dove poteva dondolarsi dai rami dei peri e delle betulle. E magari dopo si sarebbe spaparanzata all'ombra, sul prato, a mangiarsi le sue banane e bere un po' d'acqua - da un bicchiere, naturalmente.
Ma Jane non era dell'umore giusto per venire da noi, e così Malcolm arrivò da solo anche il giorno dopo, con il suo Bulli. Ci sedemmo al tavolo della cucina.
«Ti va se invece ti parlo un po' di lei?», mi disse.
Io feci di sì con la testa.
E così Malcolm mi raccontò che Jane quella mattina si era svegliata molto presto ed era riuscita a intrufolarsi dalle vicine, due vecchiette che avevano un gatto. Avevano lasciato una finestra aperta, e quando una delle due signore era entrata in cucina aveva trovato Jane seduta nel bel mezzo del tavolo, che mangiava susine da una fruttiera. I noccioli erano impilati in bell'ordine sulla tovaglia. Il gatto se ne stava su una poltrona, decisamente impaurito, mentre la signora non si era spaventata per niente, e anzi era andata quatta quatta a svegliare la sua amica perché non si perdesse la scena.
«Jane ha un modo tutto speciale di guardare le persone», mi disse Malcolm.
«Ah sì?».
«È come una magia. Come se guardasse al di là dei tuoi occhi».
«E come fa?».
«Così».
Malcolm raddrizzò le spalle e si chinò in avanti. Poi mi guardò con i suoi grandi occhi castani, occhi dolci, rotondi, e quello sguardo così tenero e premuroso mi attraversò, arrivò dritto dentro di me, toccò un punto laggiù in fondo che non sapevo più di avere. Mi vennero i brividi. Malcom sorrise. «E il modo in cui ti guarda non è l'unica magia. È proprio lei che è magica, dalla testa ai piedi», mi disse.
«In che senso?».
«Prendi le vicine, ad esempio. Mica si sono spaventate quando l'hanno vista. E nemmeno si sono stupite più di tanto. Non è che hanno chiamato la polizia, o si sono messe a strillare cercando di acchiapparla. Quando Jane le ha guardate hanno subito capito che non c'era nulla da temere. E soprattutto ora avranno di che parlare per tutto il giorno. Anzi, per tutta la settimana, probabilmente. Jane riesce sempre a far succedere qualcosa. E lo fa sempre al momento giusto».
Malcolm svitò la copertura della cappa, cambiò un tubo e poi la riavvitò al suo posto. Dopodiché andò a recuperare alcuni rotoli di carta da parati dal pulmino. Io lo aiutai a portarli dentro casa.
«A Jane piace andare in macchina?», gli chiesi.
«Eccome! È la cosa che le piace di più al mondo. A volte con la scusa di comprare i popcorn arriviamo fino in città, solo per farci un giro sul Bulli. Jane adora stare con il finestrino abbassato e sentire il vento in faccia».
Io chiusi gli occhi e me la vidi lì davanti.
«Di mettersi la cintura però non ne vuole sapere», disse Malcolm. «E poi in Svezia a quanto ne so la cintura non è mica obbligatoria, per le scimmie».
Io scoppiai a ridere. Fu una risata improvvisa, che riecheggiò a lungo nell'ingresso, e io mi sentii come se di colpo si fosse spalancata una finestra che lasciava entrare il sole e la pioggia. Mi accorsi che Malcolm indugiava su di me con lo sguardo.
Per prima cosa staccò la vecchia carta da parati passando un coltello affilato sotto i bordi, poi stuccò tutti i fori lasciati dai quadri e iniziò a tagliare lunghe strisce dalla carta nuova, che era blu. Io lo guardavo lavorare, seduta sulla panca dell'ingresso.
«E poi è un asso a cambiare le marce, la nostra Jane», aggiunse. «Insegnarglielo è stato un gioco da ragazzi. Prima, seconda, terza, quarta e via!».
Mi bastava chiudere di nuovo gli occhi per vederla lì seduta accanto a lui, senza cintura, la zampa sinistra sulla leva del cambio, pronta a inserire una nuova marcia appena lui le faceva un cenno. E poi la vedevo abbassare il vetro e starsene lì seduta con il gomito appoggiato al finestrino, come faceva la mamma d'estate, con il vento che le spettinava i lunghi capelli rossi. Poi abbassava il parasole per guardarsi nello specchietto. E a quel punto, quasi sempre, buttava un occhio dietro, dov'ero seduta io.
Come al solito Malcolm mi promise che il giorno dopo avrebbe portato Jane con sé. E come al solito arrivò da solo. Di lì a qualche settimana diventò il nostro gioco. «Domani viene con te, vero?». «Certo che viene». Ma ormai non mi importava, mi interessavano solo le storie che mi raccontava su di lei, e il modo in cui le raccontava.
Me la descriveva nei minimi dettagli, tanto che mi sembrava di averla lì davanti, in carne e ossa, mentre preparavano la cena insieme e lei si scottava ai fornelli e poi si metteva a correre per tutta la casa con il sedere per aria. O mentre cercava di spulciargli i capelli. O mentre si faceva i suoi lunghi bagni nella vasca la domenica. Lui invece le insegnava a fare il bucato, a piegare le camicie e a preparare il tè con il miele e lo zenzero, e poi andavano a spasso per il paese fra l'incredulità e le risate della gente. Ogni volta che Malcolm mi raccontava qualche nuovo aneddoto io chiudevo gli occhi e vedevo le immagini scorrermi davanti, vivide, come un film a colori, uno spiraglio dentro di me dove tutto era possibile e tutto pulsava di vita e di luce. Non avevo idea di che aspetto avesse Jane nella realtà, o di che razza di scimmia fosse. A volte mi veniva quasi da chiederlo, per curiosità, ma poi ci rinunciavo. Era bello non sapere proprio tutto, e più Malcolm mi raccontava di Jane meno voglia avevo di vederla per davvero. Per me esisteva lo stesso, riuscivo quasi a toccarla con mano da quant'era reale. La cosa più reale che mi capitò di vivere in tutta quell'estate, con ogni probabilità.
Una volta sistemati l'ingresso e la cucina Malcolm disse che era quasi arrivata l'ora di metterci al lavoro al piano di sopra, dove ci aspettavano lo scarico intasato e quello strano odore di ospedale che continuava ad aleggiare lassù come una nebbia schifosa. Ci sarebbe toccato imbiancare le pareti.
«Ci», diceva Malcom, come se fossi la sua assistente, e così mi infilai un paio di jeans tutti lisi e una maglietta che era quasi da buttare. Prima però c'era da stuccare e ridipingere qualche porta. Ci sedemmo in cucina con succo di frutta e caffè.
«Indovina che cos'abbiamo fatto ieri, io e Jane?», mi chiese Malcolm.
«Raccontami».
«Ci siamo messi a ballare».
«Quindi Jane sa anche ballare?».
«Be', dipende dalla musica. E se è di buon umore, naturalmente. Ieri ha ballato come una matta, per dire. Basta mettere la canzone giusta».
Si alzò per andare in salotto, si accovacciò davanti al giradischi e tirò fuori il vinile con la stazione della metropolitana in copertina, quella da dove usciva il fumo rosa. Io lo girai dall'altro lato, dove c'era una foto in bianco e nero dello studio di registrazione e la lista delle canzoni. «Sweet Jane» era la seconda. Pensai ai ragazzi della band che Malcolm e la mamma avevano conosciuto, e alle fotografie di quei tempi che avevo visto, la mamma con la sua criniera rossa e ribelle, quella strana pelliccia senza maniche, e lei e Malcolm che sembravano sempre in giro, in mezzo a un sacco di altra gente, in un locale o a qualche festa. Era successo molto prima che io arrivassi, in quella vita che lei aveva vissuto senza di me e papà, e che solo Malcolm poteva ricordare ora. Eppure, mentre ero lì in salotto ad ascoltare quelle canzoni, a un tratto mi sembrò tutto così vicino, con gli accordi che si inseguivano sulla chitarra e la voce ruvida del cantante che usciva dagli altoparlanti.
«Si fa così», disse Malcolm alzandosi in piedi.
Mi fece vedere come avevano ballato la sera prima lui e Jane: facendo gli stessi passi uno di fronte all'altra, a tempo di musica.
Mi misi in piedi davanti a lui.
Due passi da un lato e due passi dall'altro. Lui mi guardò e sorrise. Era un gioco da ragazzi, quel ballo, un ballo da vere scimmie. E quando arrivava il ritornello e il cantante strillava «sweet Jaaaane» noi strillavamo con lui, con tutto il fiato che avevamo in gola. Quando la canzone finì Malcolm la rimise dall'inizio, e poi ricominciammo a ballare, una volta e poi un'altra e un'altra ancora, sempre più scatenati, ed era così facile immaginarsi Jane lì in mezzo a noi, due passi a destra e due passi a sinistra. E quando alzai le mani sopra la testa Malcolm fece lo stesso, e anche lei. E fu proprio quel giorno, in un momento qualsiasi, quando Malcom alzò la musica a tutto volume, che per la prima volta in un anno o forse più sentii quel familiare squarcio in mezzo al petto, e il nodo che mi serrava la gola e lo stomaco stringersi ancora di più e poi sciogliersi, e le lacrime che arrivarono a ondate, per tutto quello che era stato, tutto quello che doveva essere e non sarebbe stato mai più.
«Lo sai, vero, che Malcom non ha nessuna stramaledetta scimmia a casa sua?», mi disse papà una sera, qualche settimana prima che ce ne andassimo. Aveva quasi finito con il suo lavoro. Rientrava sempre tardi, ogni giorno per tutta l'estate, e poi se ne stava lì inchiodato al tavolo della cucina con una tazza di tè, lo sguardo perso fuori dalla finestra. È così che funziona, credo, chi muore a volte si porta via anche il nostro cuore.
A volte capitava che tornasse un po' prima, verso l'ora di pranzo, e allora entrava in casa strascicando i piedi e si lasciava cadere sul divano. Una di quelle volte doveva averci sentito parlare di Jane.
Da ultimo io e Malcolm attaccammo il piano di sopra, passando una mano di bianco su tutto quell'odore di malattia e di ospedale che era rimasto attaccato alle pareti, e poi aprimmo la finestra e ci sedemmo sul letto a guardare il panorama. Malcolm mi disse che aveva tracciato una rotta da seguire attraverso l'Europa insieme a Jane, passando da Amburgo, Istanbul e una manciata di altri posti. Aveva preso contatti con dei volontari che si occupavano di mettere in salvo gli animali catturati dai bracconieri, e li avrebbe incontrati da qualche parte per affidarla a loro.
«Jane ha fatto il suo tempo a casa con me», mi disse. «E l'inverno non fa davvero per lei. L'inverno svedese, poi. Neanche a pensarci».
«Neve e pioggia», dissi io. «Finirebbe solo per prendersi un raffreddore».
«Proprio così», disse Malcolm.
Alla fine rimase solo il bagno. In fondo al pianale del Bulli c'era un cavo di metallo arrotolato con tanti spuntoni, e Malcom lo infilò nell'acqua melmosa dello scarico e lo spinse giù per il tubo, oltre il sifone, sempre più giù. Quando lo ritirò fuori negli spuntoni erano rimaste impigliate un'infinità di ciocche di capelli rossi, i suoi capelli. Erano talmente tanti che ci mettemmo ore a sturare lo scarico.
«Sono ancora così rossi. Pensa un po'», disse Malcolm.
«Non se li voleva tagliare, e alla fine sono caduti tutti quanti».
«Sembrano quasi un fuoco».
Finirono ammassati per terra, in un mucchietto umido in mezzo a noi. Io pensai alle lunghe chiacchierate che si erano fatti loro due nei suoi ultimi giorni.
«È stata lei a mandarti qui, vero?».
Lui si limitò a guardarmi con i soliti occhi, quegli occhi castani che ti vedevano dentro.
«Tu e Jane? È stata lei a mandarvi da me, no?».
Dopo quell'estate non lo rividi mai più. Papà vendette la casa, noi due tornammo a vivere in un appartamento in città, io cominciai ad andare in un'altra scuola e mi feci dei nuovi amici, una vita tutta nuova, e sì, a volte quando mi chiedono come ho fatto a sopravvivere a quell'estate, e cos'è stato a tirarmi fuori da tutto, e a riportarmi dentro la vita, allora racconto di Jane .
Ia
Genberg
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Genberg
Nata a Stoccolma nel 1967, Ia Genberg è una giornalista e scrittrice svedese. Esordisce come romanziera nel 2012 e dieci anni dopo, con I dettagli, raggiunge il successo internazionale. Acclamato da critica e pubblico, tradotto in più di trenta paesi, il romanzo ha ricevuto l’ambito Premio August nel 2022 …