Approfondimento

«Il cliente Busken»: Sragione e risentimento

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«Il cliente Busken»: Sragione e risentimento

Data: 21 Marzo 2024

La recensione di «Il Cliente Busken» a firma di Giorgio Vasta, pubblicata su Corriere della Sera - La Lettura il 10 marzo 2024.

Chi è il signor Busken? Un neurochirurgo? Un meteorologo polare? Un parlamentare? Oppure, come a volte sostiene, un giocatore di biliardo, un professore emerito di cibernetica, un filosofo nazionale, un amministratore vendite in un bottonificio, uno scrittore di libri, o addirittura uno stratega per lo Stato Maggiore? Cos'altro (non) sappiamo di lui? Che non ha avuto figli, però ha una figlia che si chiama Alma; che ha avuto una madre, ma non ci pensa mai, anche se ci pensa sempre; che non ha mai avuto un padre. Sappiamo che non sente niente: «Per fortuna sono sordo come l'asfalto», dice; e precisa che dentro il suo cranio la sordità è «un filo di silenzio assoluto»: certo, c'è da chiedersi se sia sordo per davvero o per strategia. Ciò che sappiamo con certezza è che la sua voce - da intendere in questo caso come sguardo sul mondo - è radicalmente insocievole e comicamente disperata; Busken è uno di quegli uomini del sottosuolo che da Fëdor Dostoevskij, e prima ancora passando per il pazzo Popriscin di Nikolaj Gogol', irradiano le loro confessioni cupamente beffarde nella scrittura di Louis-Ferdinand Céline, di Thomas Bernhard, di Tommaso Landolfi. Sono voci «risentimentali», concentrate nella percezione costante e intollerabile di quell'oltraggio che per loro è il mondo. Ed è anche per questo - perché tutto quello che lo circonda lo oltraggia - che Busken non sopporta di essere toccato. Se qualcuno lo tocca, chiarisce, «lo spavento mi fa ingolfare la conservazione, conversazione, consacrazione, come si dice, contemplazione, concentrazione». E ancora: quella continua insolenza che è il mondo, per Busken è soprattutto una cosa blu. Dipende da un incidente, da una caduta, da una cataratta. La sua capacità «cromodiscernente», precisa, ne è stata compromessa. Il mondo è una nebbia nella quale si aggirano forme che d'un tratto si tramutano «in azzurro nebbioso, celeste, blu luminoso, fluorescente, traslucido, che fa scomparire i colori reali degli oggetti».

Tutto ciò è il signor Busken; anzi «Il cliente Busken», il romanzo che Jeroen Brouwers ha scritto tra il 2015 e il 2019, tre anni prima della sua morte (era nato nel 1940), e che oggi Iperborea pubblica nella bellissima traduzione di Claudia Di Palermo e Francesco Panzeri. Quel che serve sapere è che Busken potrebbe anche non essere chi dice di essere. Perché la demenza vascolare da cui è affetto lo rende limpidamente inattendibile. Via via che il suo monologo prende forma, cominciamo ad avere la sensazione che il suo passato - ma forse ogni passato - sia in generale un'impostura, e che quella cosa che chiamiamo «identità» non sia altro che una diceria («la mia origine è di tipo metafisico, mitologico»). Seduto su una sedia a rotelle, una cinghia contro il ventre e un fischietto nella tasca sinistra della camicia per chiamare un infermiere accudente se dovesse averne bisogno (ma essendo insocievole non chiama mai nessuno, tanto più se accudente), Busken passa il tempo rinchiuso in un dormiveglia che attutisce le percezioni e vivifica l'immaginazione. «È vero», considera, «a volte tendo alla piena pienezza, alla strapiena straripante insaziabile prorompente debordante inondante calpestante sopraffacente esaltazione. Forse sono sempre stato malato di mente e risiedo qui già da diversi secoli». «Qui» è una casa di cura che si chiama Villa Madeleine; a popolarla ci sono i «residenti alzheimeriani dementi aspergici parkinsoniani autistici toccati squilibrati disturbati». Gli altri clienti di Villa Madeleine - «clienti», chiarisce Busken, perché il linguaggio nelle sue continue metamorfosi preferisce neutralizzare alcune parole travestendole con una terminologia tecnica e astratta. Ci sono clienti piumati, altri «hanno teste di pesce e code di cane», e sono irrequieti o imbambolati, una galassia di figure che somiglia a uno sviluppo contemporaneo delle visioni di Bruegel e di Bosch: forme mescolate e astrali, feroci e tenere: «creaturoidi», per dirla con Busken (e con Brouwers), che vagano in un carnevale slapstick come corpi manichinici continuamente affaccendati in qualcosa - non è mai possibile capire davvero in cosa, ma è proprio attraverso il brulicare di questi corpi che Brouwers, nascosto nella voce di Busken, rende chiaro che cosa voglia dire usare il comico come un matraccio per distillare il tragico.

Dicevamo di ciò che (non) sappiamo del signor Busken. Ci sono alcune parole che lo incuriosiscono. In particolare quelle di quattro lettere: «tubo», per esempio, «cubo», «lama», «vite», «fumo», «caos». Ma forse è il linguaggio tutto intero a ossessionare Busken - a ossessionare Brouwers. Stretto nella sua seggetta, Busken «pensa» il linguaggio. Le parole - in generale una compagnia poco raccomandabile - non sono più quelle di una volta e adesso gemmano l'una dall'altra, sempre più instabili, sempre più incredibili. Tecnicamente, quella di Busken si chiamerebbe «verbigerazione». In lui la demenza non è soltanto o soprattutto uno stato patologico devastante - sempre più frequente, sempre più emblematico - ma un paradossale metodo di conoscenza. Quando i nessi sintattici vengono meno, quando ogni parola può ospitarne al suo interno un'altra e un'altra ancora, e il significato è un piccolo fantasma che si aggira frenetico nel testo, c'è qualcosa che inaspettatamente si rivela. Busken pensa il linguaggio - e lo scrive su vecchi rotoli di carta da fax, «parole inventate, a volte in grafia speculare, lettere inesistenti, un'algebra in una sorta di geroglifici dell'epoca delle piramidi o di arzigogoli arabi, senza punti né virgole, pentagrammi con note musicali o segni equivalenti, griglie con quadratini colorati di nero come nei cruciverba, oppure di rosso o di verde, ghirigori con i pastelli, impossibile estrarne una logica» - e intanto se ne va via la giornata alla fine della quale, se il cielo non si rannuvola, nel giardino della casa di cura si organizzerà un barbecue. Mentre il giorno declina, il signor Busken ha ancora un desiderio: «Trasformatemi in nebbia per fuggire dagli spifferi delle finestre, rendetemi invisibile, non c'è bisogno che io ci sia, non serve a niente che io ci sia». Del resto in un luogo che si chiama Villa Madeleine il tempo passa ricordando e dimenticando. Busken lo sa: immaginare il linguaggio è un modo, addirittura un metodo, per ricordare tutto ciò che si dimenticherà. Perché, in fondo, il destino di tutto ciò che viene ricordato è poter essere un giorno dimenticato.
Jeroen
Brouwers

Jeroen Brouwers (1940-2022) è uno dei grandi maestri della letteratura olandese. Ha trascorso l’infanzia in Indonesia e dopo l’invasione giapponese è stato internato nel campo di Tjideng, per poi stabilirsi nei Paesi Bassi. Autore di numerosi romanzi, racconti e saggi, ha ottenuto i più importanti riconoscimenti letterari del suo paese, …

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