Intervista
Scrivo di una sconosciuta: la me anoressica più giovane d'America
Intervista
Scrivo di una sconosciuta: la me anoressica più giovane d'America
L'intervista di Claudia Durastanti a Rachel Aviv, autrice di «Stranieri a noi stessi», pubblicata su La Stampa - Tuttolibri il 6 gennaio 2024.
Durante una presentazione di «La cagna» di Pilar Quintana, un romanzo su classe, violenza e maternità che tratta anche questioni razziali, due ragazze si sono alzate e hanno chiesto all'autrice perché non avesse ancora parlato di disturbi mentali. La psicanalisi del personaggio letterario si è sempre fatta, ma la domanda era diversa: c'erano dei modi per curare la protagonista? Come sarebbe andata se si fosse parlato liberamente di disturbo mentale? L'avrebbe stigmatizzata o aiutata a gestire un pezzo di sé? Ho pensato subito a «Stranieri a noi stessi», il saggio di Rachel Aviv che ho tradotto per «I corvi» di Iperborea. Perché Aviv si pone la stessa domanda, ma esce dalla letteratura per scaraventarsi nelle vite di sei persone (una è proprio lei) e capire dove si sono spezzate e come mai le risposte incentrate sulla somministrazione di psicofarmaci o sullo scavo interiore non sono sempre sufficienti.Quando si vive uno stato di angoscia o di sofferenza ingestibile, uno dei primi consigli è: «scrivilo». Hai deciso di incentrare il tuo studio proprio sulla scrittura, sui diari delle ragazze che smettono di mangiare o pensano di salvare il mondo dal razzismo. In alcuni casi la scrittura pare essere catartica, in altri non porta a molto. Perché sei partita da qui?
Per una ragione tecnica. È difficile ricostruire un'esperienza di malattia: il tempo diventa molto fluido. Quando dovevo scegliere le persone da raccontare mi chiedevo come passare da un evento all'altro nelle loro vite tenendo conto della memoria soggettiva. Se avevano scritto lettere o diari, potevo avere accesso a loro in un dato momento, e potevo usare la scrittura per fare domande sulla malattia e la guarigione. Mi piaceva la stratificazione che ne conseguiva. Scrivi di te in un preciso momento, qualche anno dopo ci torni in maniera diversa; la scrittura cattura l'immediatezza dell'esperienza prima che si trasformi. Nelle storie che ho scelto, catturava qualcosa con cui si era perso il contatto.
E come ti sei sentita quando ti sei resa conto che per alcuni non era così utile? Per me ha incrinato un po' la fiducia nella parola scritta, non in maniera negativa. Abusiamo dell'idea che scrivere di noi sia l'atto più autentico e magico per capirci qualcosa.
Ma vale pure per il parlato! C'è l'idea reiterata che se soffri devi parlarne per raggiungere un'altra consapevolezza, ma non è sempre così. A volte racconti la tua storia, la stessa storia, e diventi solo ossessionato da te stesso. Ray pensava di riscattarsi raccontando di sé, poi ha scritto un memoir fluviale e ne è stato risucchiato; cercava una chiave per dimostrare qualcosa e non ci è riuscito. La nostra cultura enfatizza troppo il potere curativo nel tirare fuori le cose. È come una curva, c'è un punto in cui raccontare la propria storia la chiarifica, poi si solidifica e diventa rigida, inamovibile, non ci sono più altri modi di pensare a sé stessi.
Quando vivevo a Londra molte amiche andavano in terapia per parlare in inglese, nonostante conoscessero pochissimo la lingua. Era un modo per aggirare l'eccessiva intimità con le parole. Come se ci fosse un valore pratico nel non arrendersi alla bellezza o alla proprietà del linguaggio. Traducendoti ci ho pensato molto. Mi racconti un po' l'ordine che hai scelto per le storie nel libro?
All'inizio puntavo a un ordine cronologico, dato che provo a ricostruire una storia dinamica della psichiatria e della psicofarmacologia negli Stati Uniti. Ma non volevo cominciare con Ray, era il capitolo che mi piaceva di meno, eppure dovevo partire con lui perché presentava il paradigma, spiegava quali sono le reazioni principali a un caso di sofferenza psicologica. La mia editor mi ha suggerito di pensare ai vari temi - la solitudine, lo smarrimento, la marginalità razziale - come se fossero dei personaggi e vedere quali erano le costanti, dove sparivano e dove tornavano. Ma l'unica costante nel libro ero io, ecco perché sono diventata una storia e ho parlato di quando sono diventata la presunta anoressica più giovane d'America.
A proposito di storia culturale dei disturbi mentali, sotto la vita di ognuno c'è un paese, un sistema economico, una retorica terapeutica. È il motivo per cui Laura, la persona più diagnosticata e trattata in «Stranieri a noi stessi», è quella più opaca e sfuggente.
L'esperienza di Laura è molto legata al consumismo; a un certo punto prendeva diciassette farmaci diversi. E ci sono molti significati culturali legati all'appartenere a una certa élite. Pensi che ci sia qualcosa di troppo americano nella sua storia?.
Sicuramente mi ha fatto pensare al modo in cui «Stranieri a noi stessi» può vivere in altri contesti culturali. E anche alla temporalità, certo, al fatto che è un libro "di adesso".
In realtà ci ho lavorato durante il picco del Covid, quando era tutto irrilevante. La mia editor riceveva telefonate di autori che volevano smettere di scrivere un romanzo o un saggio proprio per la loro inutilità. A un certo punto però le paure sanitarie si sono attenuate e sono emerse le crisi mentali e psicologiche, e il libro ha riacquisito senso. Sono partita dalla solitudine e dall'isolamento, e intuivo che sarebbe uscito in un momento in cui la questione dei disturbi mentali sarebbe stata centrale.
Non penso sia troppo americano, ma l'Italia ha avuto un approccio meno farmacologico, più legato al potere della parola che a quello della pillola. Le persone più giovani sono meno stigmatizzanti, parlano con più disinvoltura dei farmaci e delle terapie e questo riduce le distanze. Resta un piccolo disallineamento della cornice. Per esempio, la storia di Bapu che lascia la famiglia per perseguire la via della santità, forse si traduce meglio per la familiarità con il lavoro di Ernesto De Martino sui fenomeni di labilità psichica nel Meridione.
In Olanda mi hanno ringraziato per il mio coraggio perché nel libro dico che prendo l'antidepressivo Lexapro da vari anni. Qui da noi, dire che prendi il Lexapro è come dire che prendi l'antidolorifico per il mal di schiena. È stato sorprendente notare che un gesto così banale potesse assumere una patina confessionale, di coraggio e rivelazione.
Citi il Lexapro per descrivere come gli antidepressivi mirati alle donne sono diventati popolari affinché fossero soggetti funzionali, è un discorso di genere ed economico. È probabile che in altri paesi diventi un personal essay in cui l'io è molto più forte, intimo e rivelatorio rispetto alle intenzioni originarie. Nel libro parti della tua diagnosi di anoressia a sei anni, sapevi che saresti stata così centrale?
Direi di sì. Molte curiosità e ricerche che ho affrontato nell'attività giornalistica partivano dalla mia precoce esperienza ospedaliera. Non ho mai pensato di scrivere un memoir , è stato solo un metodo per spiegare ai lettori come mai volevo fare certe domande. La domanda alla base del testo è difficile da distillare, ha un'articolazione difficile, esplorativa. Raccontare la mia storia poteva ridurre la confusione. Poteva farmi arrivare meglio al caso dei bambini richiedenti asilo in Svezia che dal nulla hanno smesso di mangiare per settimane. Ho usato la mia strana esperienza che non rispondeva a nessun modello curativo in maniera estrattiva, per arrivare agli altri.
C'è un concetto spettrale rispetto alla convivenza con altre ragazze anoressiche e al modo in cui ne sei scivolata fuori, quando spieghi che non hai avuto «una carriera» in quel disturbo perché non avevi la lingua e i concetti per farlo, essendo così piccola. È spettrale perché conduce al desiderio, all'imitazione, al bisogno di aderire a un'altra versione di sé.
Sì, direi che ho avuto un apprendistato nell'anoressia che non è andato a termine, mentre guardavo ragazze più grandi di me più dedicate al progetto. Ma ero convinta che fosse un progetto valido, si può costruire un intero sistema di valori su quello.
Una delle regioni italiane con la maggiore diffusione di psicofarmaci è la Calabria. Sono particolarmente diffusi tra uomini di mezza età, per gestire meglio l'ansia anche rispetto al sistema culturale che cambia. A parte Ray e un uomo senza fissa dimora con cui ti scrivi per un po', dal libro emerge un quadro tarato sul femminile.
In linea di massima avrei preferito non avere tutte queste donne, ma sapevo che volevo scrivere del rapporto tra psichiatria e razza negli Stati Uniti e mi serviva la persona giusta per parlarne, con un tracciato scritto di referti, schedari della polizia, etc. Alla fine ho trovato Naomi e non volevo escluderla solo perché donna. Alla fine il personaggio che mi ha interessato meno è proprio Ray, ma perché è morto e non perché era un uomo.
La realtà è che adesso si parla molto di più di disturbi mentali, ma il lessico psicoterapeutico pop sta facendo perdere un po' di precisione, di consistenza. Temi mai l'uso di parole diagnostiche lanciate a caso?
Sicuramente ci sono persone più aperte che desiderano un nuovo modo per parlare di disturbi mentali. Mi chiedono spesso cosa penso dell'uso che se ne fa su tiktok, dove ragazze e ragazzi si autodiagnosticano e si creano una comunità attorno per parlarne, in un gioco di riflessi che diventa l'identità. Anche se non ne parlo direttamente, nel libro tratto un effetto circolare simile, sul sentirsi visti. L'unica cosa che mi preoccupa è se viene letto come anti-psichiatria o pro-psichiatria, non è quello il punto.
«Stranieri a noi stessi» si allinea alla tendenza di usare il sé come un portale per accedere a un materiale vasto e ignoto. Il tuo lavoro per il New Yorker è sempre stato molto intimo senza usare il personale.
Non scrivo mai di me nel New Yorker. L'approccio alla persona che ero a sei anni o a trent'anni è l'approccio che si dedica a una sconosciuta, quando si raccolgono tutti i documenti e le interviste necessari per approfondire la sua storia. Ovviamente è stato molto più facile con la Rachel di sei anni, una straniera che non conosco. Per me la sfida è stata proprio non farmi fuori, non rimuovermi: volevo essere una presenza senza essere tutto. Il mio collega Patrick Radden Keefe (autore di «L'impero del dolore», Mondadori) ha letto una bozza e mi ha detto di mettere quando mi sono sposata, quando ho avuto figli, ma ero molto riluttante a riempire i vuoti per appagare il lettore. Volevo tralasciare le cose che non erano funzionali delle idee da esplorare. Eppure le recensioni partono sempre allo stesso modo: «Rachel Aviv ha smesso di mangiare a sei anni»! A volte i libri con una presenza smaccata del sé acquisiscono una patina falsa, di enfasi del dramma attorno al soggetto, ma non avrei mai scritto qualcosa del genere. Per me è stato un esperimento per staccarmi un po' dallo stile New Yorker e riconoscere che potevo essere un filtro, una specie di medium.
Rachel
Aviv
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Aviv
Rachel Aviv è una giornalista statunitense. Scrive per il New Yorker, dove si occupa, fra gli altri temi, di medicina, educazione e giustizia. Nel 2022 ha vinto il National Magazine Award for Profile Writing.