Approfondimento
Prima del terremoto la voce del terremoto
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Prima del terremoto la voce del terremoto
Una recensione di «Rombo» di Esther Kinsky, di Cristina Taglietti, pubblicata su La Lettura - Corriere della Sera il 2 aprile 2023
Com'era il paesaggio prima? «Di colpo la gente l'ha dimenticato e lo cercherà nei sogni, per anni». Com'era il paesaggio prima del rombo, prima dello squarcio, prima dei cocci, delle macerie? Com'era il paesaggio prima del terremoto che il 6 maggio 1976 devastò il Friuli orientale cambiando il profilo del paesaggio e la vita delle persone? «Il terreno della vita quotidiana diventa un luogo disturbato, in cui ciascuno cerca quello che ha perduto, tastando, scrutando, tendendo l'orecchio», scrive Esther Kinsky in questo romanzo che anche nell'originale tedesco ha il titolo in italiano: Rombo. È il rombo che precede la scossa, anche se sono molti i nomi dati a quel suono: sibilo, ronzio, brontolio, sussurro, tuono, strepito, fruscio, stridore, borbottio, fischio, rimbombo, boato. Ma nessuno mette in dubbio che «salisse dalle profondità della Terra e non rotolasse giù dalle pareti della montagna», anche se è stato seguito da una sorta di prolungato fragore non appena la massa rocciosa si è staccata ed è precipitata a valle.Kinsky è una narratrice, poetessa, traduttrice che indaga l'esperienza umana attraverso i luoghi, i paesaggi, la vita quotidiana che vi si conduce. Chi la conosce già per i suoi libri precedenti, soprattutto Macchia e Sul fiume, riconoscerà la comune impostazione, a metà tra la psicogeografia e la narrazione etnografica che, soprattutto per Macchia - un viaggio in Italia che è anche elaborazione del lutto (la protagonista ha perso il compagno) - l'ha fatta accostare ad autori come W. G. Sebald, alla bielorussa Svetlana Alexievich, alla polacca Olga Tokarczuk di I vagabondi, di cui è la traduttrice in tedesco.
In Rombo Kinsky, che trascorre lunghi periodi dell'anno in un paesino del Friuli, percorre un itinerario narrativo che coinvolge l'intero ecosistema di quella parte di territorio: le rocce, la flora, la fauna. Fonde memoria personale e collettiva, intreccia la storia, la geologia, le leggende e i racconti popolari alle voci di sette personaggi, abitanti di quella valle. Alcuni erano già adulti al tempo del terremoto, altri erano bambini e i brandelli dei loro ricordi tessono la tela del sisma. Sono resoconti orali, a volte contraddittori perché la memoria ricostruisce sempre a modo suo e niente è più uguale a prima, altre volte resi imprecisi dal trauma e dallo smarrimento, che danno al romanzo un passo documentaristico: «La ricerca di un riparo e le paure e l'orecchio teso a nuovi brontolii, in garage, all'aperto, stipati nella Fiat di famiglia, sotto le macerie, tra i morti, con un gatto in braccio».
C'è Adelmo, nato in Germania, che di notte, nell'auto in cui dormiva, parlava in tedesco con la sorella per non farsi capire dagli altri bambini; c'è Olga, cresciuta in Venezuela, che quella mattina vede un serpente sul muro, nero come il carbone; Lina che si deve sposare («meno male che al tuo corredo non è successo niente», le dice la madre). E poi Silvia, Toni che aiuta i soldati jugoslavi a costruire le casette per gli sfollati, Mara che ha vissuto una settimana nella tenda con la madre malata di demenza e poi è tornata nella casa pericolante, Gigi che ricorda poco o non vuole ricordare («Ognuno è condannato alla sua memoria. A ciò che ricorda, e a ciò che dimentica», dice).
La scrittrice riproduce le loro voci senza silenziare quelle della natura in modo che «le tempeste, i sogni, il lavoro nell'uliveto, un gesto d'addio alla partenza dell'autobus» costruiscano non soltanto il senso di una comunità ma di un territorio. Ne esce un romanzo stratificato, dalla lingua pulita e poetica, dove le cose, i traumi, i ricordi si accumulano gli uni sugli altri. Ci sono i presagi, i segnali silenziosi della natura: un serpente schiacciato sulla strada (se è una femmina e non ha ancora deposto le uova, porta sfortuna, il maschio striscia per il paese in cerca del colpevole); i due soli che, a un certo punto, stanno proprio sopra la vetta innevata del Canin, come una doppia immagine riflessa; il latte delle capre che ha un odore amaro; gli uccelli striduli che non toccano mai il suolo. Poi il rombo e l'aria piena di rumori, dai tuoni lontani provenienti dalle pareti dei monti allo scricchiolio degli alberi nei giardini, gli schianti del legno nei tetti, il tintinnio delle schegge di vetro e il rimbombo secco e tonante della pietra. E poi «voci umane che stridono in preda all'agitazione, prive di un riparo, che cercano i propri cari, gridano sotto cumuli di detriti, spostano macerie, si contorcono, chiamano, piangono».
Per alcuni è l'Orcolat, l'orcaccio, l'essere mostruoso che, nei racconti della tradizione popolare, vive rinchiuso nelle montagne della Carnia e ogni sua mossa brusca provoca un terremoto. Dopo il 1976 l'Orcolat è divenuto sinonimo di quel terremoto, anche se un altro sisma colpirà il Friuli nel settembre dello stesso anno. Ma quella volta «tutti quanti erano già fuori dalle loro case, alcuni ancora in camicia da notte, e di colpo è calato un tale silenzio, un silenzio che altrimenti non si sente mai nel mondo, come se tutti in paese trattenessero il respiro, e anche gli uccelli tacevano».