Intervista

L'inverno islandese è troppo gelato, solo la letteratura lo può salvare

Intervista

L'inverno islandese è troppo gelato, solo la letteratura lo può salvare

Data: 17 Aprile 2023

Un'intervista di Francesco Moscatelli a Guðrún Eva Mínervudóttir, pubblicata su Tuttolibri - La Stampa il 4 marzo 2023

«Il senso della vita è connettersi agli altri. Ci proviamo sempre, perché non vogliamo restare soli, ma non è facile. Spesso ci riusciamo a un livello superficiale e ciò è molto frustrante. La bellezza della vita è cercare di non rimanere chiusi in se stessi. È un progetto infinito, una fatica incessante». Sono le 9.30 di mattina ma il volto sorridente di Guðrún Eva Mínervudóttir, compare nello schermo del telefono cellulare illuminato da una lampadina. Alle sue spalle c'è quello che sembra il mobile di una cucina, immerso nel buio profondo dell'inverno islandese. È appena uscito in Italia Metodi per sopravvivere, il suo primo lavoro pubblicato da Iperborea, un romanzo breve che riprende le riflessioni sulla solitudine, l'incomunicabilità e il bisogno di costruire legami che erano già presenti nei tre libri tradotti da Scritturapura: Il circo dell'arte e del dolore (2008), Il creatore (2010) e Tutto si risveglia con un bacio (2013).

I personaggi delle sue storie condividono una certa solitudine esistenziale. Penso a Sveinn, l'artigiano che costruisce bambole di silicone protagonista del suo secondo romanzo, ma anche ad Árni, Andi Snær, Hanna e Borghildur, le quattro voci narranti dei "Metodi". È qualcosa che ha a che fare con l'essere nata e cresciuta in una nazione fatta di paesini minuscoli, ghiacciai e spiagge nere di lava?

«Questo discorso sulla solitudine me l'hanno fatto tanti lettori, e dunque ci devo credere. Ma per quanto mi riguarda ho sempre immaginato i miei personaggi non come persone sole, ma come persone auto-sufficienti. Forse è perché io stessa mi sento molto auto-sufficiente. Non mi sento mai sola, o comunque per provare davvero la solitudine devo starmene per i fatti miei molti giorni di seguito. Di certo i miei libri parlano della difficoltà di comunicare e di aprirsi agli altri. Ricordo di aver letto degli studi scientifici che dimostrano che nessuno riesce davvero a dire ciò che intende. E che quando le persone ti sentono in realtà non ascoltano o non ricordano quello che hai detto. Quindi sembra quasi impossibile connettersi davvero a qualcuno».

I suoi lavori precedenti sono molto più corposi, strutturati, quasi traboccanti. Perché questa volta ha puntato invece sul minimalismo?

«Molti dei miei eroi letterari, come Amélie Nothomb, scrivono racconti. Ho sempre voluto scrivere racconti e prima di scrivere i Metodi mi sono cimentata con una raccolta di racconti. Trovo i racconti più intuitivi dei romanzi, meno cerebrali, più aperti. Quando scrivi un romanzo devi per forza avere una struttura forte per coinvolgere il lettore per un tempo maggiore e io avevo un po' il desiderio di rompere i confini del romanzo. Ho sperato che questi due libri segnassero un'evoluzione della mia scrittura, ma non è stato così. Il mio ultimo lavoro è più lungo, simile ai primi. Sono condannata a scrivere romanzi. Me lo ha confermato anche un'indovina a cui mi sono rivolta mesi fa».

Un'indovina?

«Sì, è una cosa abbastanza comune in Islanda (ride, ndr). Qui molti prevedono il futuro, non solo i gitani. Beh, questa persona mi ha detto che nel mio futuro vedeva libri lunghi. Ci sono rimasta male perché in realtà io vorrei dedicarmi ai testi brevi. Il compromesso che ho sperimentato nel mio ultimo romanzo, Útsýni ("Vista" o "Veduta" in italiano, ndr), pubblicato in Islanda a ottobre, ha a che fare con l'uturdur, una parola che può essere tradotta con digressione. Cerco sempre di far entrare dell'aria fresca e inaspettata dentro le mie pagine e in questo caso ho provato a farlo costruendo il personaggio di una giovane donna, Sigurlilja, che per un istante può vedere attraverso gli occhi delle altre persone, immedesimandosi in loro. La sua storia fa da cornice a tante altre micro-storie che però sono autonome, come uno zaino pieno di racconti».

Un altro tema presente nei suoi libri è il rapporto fra mente e corpo. Si è occupata di neuroscienze ma anche di malattia, sofferenza psicologica e disturbi alimentari. Come nasce questo interesse per il dolore, anche in senso fisico?

«Sono laureata in filosofia ma ho studiato anche molta scienza da autodidatta. Per scrivere Il circo dell'arte e del dolore, ad esempio, ho trascorso tanto tempo con un importante docente di neurobiologia. Sono affascinata dalle connessioni fra cervello e corpo e dal funzionamento della nostra mente. Chi sa davvero spiegarlo? La filosofia pretende di conoscere molte cose ma quando arriva al livello della coscienza si ferma, come se ammettesse che non sappiamo davvero cosa sia la coscienza. Cosa significhi essere coscienti? Comprendiamo il corpo come macchina e la mente come una cosa connessa al corpo e al cervello, ma la coscienza è un mistero e questa cosa mi ha sempre attratto, come anche l'esperienza di essere un corpo. È una cosa a cui non mi sono mai davvero abituata. Mi sembra sempre un po' un miracolo, un po' un viaggio e un po' una cosa strana. Quando scrivo provo ad amplificare questa sensazione perché mi aiuta a non dimenticare quale miracolo sia l'essere una mente cosciente all'interno di un corpo».

Una peculiarità della sua scrittura è la presenza di una pluralità di voci. Perché sceglie di raccontare la stessa storia da più prospettive?

«Perché avere un solo punto di vista è qualcosa di irreale e di poco credibile. Per me è fondamentale vedere come persone diverse vedono lo stesso evento da punti di vista diversi e poi paragonarli. Anche per andare in profondità nella psicologia di un personaggio è utile sia avere la sua prospettiva sia quella di qualcun altro su di lui. Questa tecnica elimina la piattezza del punto di vista unico e rende la scrittura più dinamica e tridimensionale. Aiuta il lettore a entrare davvero nella vicenda narrata e gli permette di capire fino in fondo quello che sta succedendo».

Nella letteratura islandese è fortissima la connessione fra paesaggio naturale e sentimenti umani. La trama di "Tutto si risveglia con un bacio", ad esempio, ha come sfondo una apocalittica eruzione del vulcano Katla e si parla di una domestica che prova inutilmente a ripulire una casa dalla cenere. Quanto influisce questa natura sublime e allo stesso tempo potente e minacciosa sulla vostra arte?

«Nei tempi passati era facile riconoscere questo tratto nel popolo islandese. Ma oggi? Andiamo in giro in auto e guardiamo le serie Tv proprio come tutti gli altri. Eppure per certi versi non siamo cambiati. Reykjavík è la nostra sola città ma nei fatti è poco più di un paese, e noi continuiamo ad avere una forte connessione con l'ambiente naturale. Credo che avere una connessione con la natura significhi in qualche modo avere una maggiore connessione con se stessi. E che la nostra creatività si nutra proprio di questa connessione profonda. Forse in Italia o in altri Paesi europei la civiltà è ovunque e perdersi nella natura è più difficile. I nostri edifici più antichi hanno 200 anni e la nostra storia è molto corta, senza contare che per secoli siamo stati un Paese di fattorie. Penso che in Islanda ci sia una sorta di creatività grezza, che nasce direttamente dalla natura. In altri Paesi, invece, la cultura si costruisce sulla cima di altra cultura, e il risultato è una ricchezza di tipo diverso, più raffinata».

Ha già qualche nuovo progetto per il futuro?

«Sto lavorando a un libro, che utilizza la forma del romanzo per raccontare una storia vera. Un po' come La mia lotta dello scrittore norvegese Karl Ove Knausgård. Parla di un matrimonio che si rompe. Lo so, non sembra molto interessante, ma in realtà lo è. Ed è anche divertente. C'è molto dolore, ma anche molta ilarità. Le cose non vanno mai prese troppo seriamente».