Approfondimento

E Steinar donò il cavallo al re

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E Steinar donò il cavallo al re

Data: 29 Marzo 2022

Una recensione di Nicola Lecca a «Il paradiso ritrovato» di Halldór Laxness, pubblicata su Robinson il 29.01.2022

Deluso dal suo sovrano Cristiano di Danimarca, un artigiano si imbarca verso lo Utah, riponendo le speranze nei mormoni. L'eccentrica avventura del Nobel islandese Halldór Laxness

Quando, nel 1955, Halldór Laxness ricevette il Nobel per la letteratura, gli accademici di Svezia finirono per preferire la sua candidatura a quella del connazionale Gunnar Gunnarsson per la vivida potenza epica con la quale egli ha rinnovato la grande arte narrativa d'Islanda e, assai probabilmente, anche perché Laxness ha usato di rado i suoi romanzi per dimostrare le proprie convinzioni politiche. Lui, che guidava una Jaguar nonostante fosse socialista. Lui, che scelse l'ironia per criticare sia le brutture del colonizzatore danese, sia l'esorbitante presenza militare americana nell'Islanda del secondo dopoguerra. Lui, instancabile viaggiatore che - nella remota tenuta di Gljúfrasteinn - viveva fra mille agi, attorniato da una variegata mobilia proveniente dai cinque continenti.

Di Halldór Laxness, Iperborea ha pubblicato sette titoli importanti: dal capolavoro Gente Indipendente alla favola moderna Il Concerto dei pesci. Stupisce, dunque, la decisione di dare alle stampe Il paradiso ritrovato, un romanzo lontanissimo dalle sue corde, inedito in Italia, scritto a Lugano, e dedicato al mormonismo che Laxness studiò quando, da ragazzo, visitò Salt Lake City.

«Molti lettori hanno chiesto cosa mai abbia portato un uomo come me a scrivere un romanzo la cui trama ha il suo nucleo nello Utah. È semplice: molti di noi, in un certo qual modo, credono in una Terra Promessa dove la verità e la felicità prevarranno per sempre». Precisò Laxness, amareggiato dal fatto che i mormoni non avessero speso una sola parola su questa sua opera dedicata alla loro religione.

È la fine dell'Ottocento quando Steinar - un artigiano contadino che mai dice di sì, né di no - lascia l'Islanda per andare in visita al re Cristiano di Danimarca cui, tempo addietro, aveva donato il suo miglior destriero, nella convinzione che «non si dimostra il proprio valore finché non si rinuncia al proprio cavallo».

A quel sovrano, che campa sulla pelle degli islandesi, Steinar porterà in dono un capolavoro di ebanisteria: uno scrigno che egli stesso ha realizzato per custodire gemme e segreti grazie a una serratura inviolabile composta da macchinosi meccanismi azionati da pomelli numerati i cui spostamenti sono regolati dai versi di una poesia.

Deluso dall'incontro con il re, Steinar viaggerà alla volta dell'America per conoscere la Terra Promessa che un vescovo mormone gli ha raccontato. Di quella religione relativamente nuova, non è certo la poligamia ad attrarlo: ma la possibilità che i suoi insegnamenti siano più veri di quelli impartiti dai sovrani danesi e che, nello Utah, possa esserci maggiore benessere per sé e per la sua famiglia.

E così, durante i tre anni successivi, l'artigiano contadino si converte, cambia nome, abbandona moglie, figli e fattoria: lasciando andare in rovina quanto aveva costruito con cura mosaicale nell'arco di una vita.

S'innesta qui la struggente descrizione di un'Islanda in cui il baratto impera e le monete d'oro sono la fonte di ogni male, in cui la gente si accoppia senza romanticismo pur portando il paradiso dentro di sé, e in cui la pioggia schiaffeggia i vetri delle finestre mentre il mare e le burrasche uccidono più pescatori di quanti soldati muoiano in guerra. Un'isola di povertà, in cui i bambini camminano con passo leggero per consumare con parsimonia le scarpe e in cui i falò si ravvivano con lo sterco di pecora. Ma anche un luogo magico, in cui le mucche muggiscono undici volte per annunciare la siccità e i migliori puledri vengono nutriti con il burro perché abbiano il muso più vellutato delle guance di una vergine.

Una trama che rispecchia profondamente l'indole degli islandesi, nella cui lingua la parola heimskur indica uno stupido, un ottuso: ma letteralmente significa «colui che non esce mai di casa». Conoscere, esplorare e confrontarsi con l'altro da sé è sempre stata una questione fondamentale per il popolo islandese: nella convinzione che «la verità viene prima di ogni altra cosa» e che «chi torna non è mai la persona che è partita».

Non a caso, le più belle pagine di questo romanzo, molto più islandese di quanto sembri, sono quelle che raccontano il lungo viaggio a bordo del transatlantico sul quale la moglie e i figli di Steinar viaggeranno - tra l'eloquente e festoso mutismo di chi parla lingue diverse - per potersi riunire a lui nello Utah.

Ma perché il traduttore Alessandro Storti - tanto zelante da accentare cómpito, àmbito e séguito - ha infarcito il romanzo - e perfino la postfazione - con una cinquantina di rigorose note a piè di pagina: segnalandoci, addirittura, che il Nobel islandese avrebbe commesso un errore di traduzione?

«Spesso sono proprio le parole a rompere l'incanto». È lo stesso Laxness a ricordarcelo fra le pagine di questa sua opera imponente che trasuda vita e morte: ma soprattutto dubbi e desiderio di verità.