Intervista

Roy Jacobsen, I miei Malavoglia norvegesi

Intervista

Roy Jacobsen, I miei Malavoglia norvegesi

Data: 29 Marzo 2022

Intervista di Angelo Ferracuti a Roy Jacobsen, pubblicata su La Lettura il 13.03.2022

La nuova biblioteca civica di Oslo, la Deichman Bjørvika, un edificio alto e luminoso fatto di grandi vetrate che sta dietro la stazione centrale, vicino al nuovo museo Munch e al Teatro dell'Opera, è affollatissima il sabato pomeriggio. All'entrata, sul soffitto, le scie di luce dei 400 neon luminosi gialli e bianchi, suggestiva installazione dell'artista Lars Ø Ramberg, illuminano la grande sala. Intere famiglie passeggiano quiete nell'atrio o salgono senza fretta sulle scale mobili che portano ai piani superiori tenendo per mano i figli piccoli (al secondo c'è uno spazio interamente riservato ai giovanissimi lettori); altri frequentatori leggono seduti su comode poltrone in pelle al pianterreno, presi nei pensieri delle loro storie. Ma stranamente, nonostante la quantità di persone che si è riversata ai piani, più di mille avventori, soprattutto giovani, non è un luogo rumoroso.

All'ora dell'appuntamento, quando lo chiamo al cellulare, Roy Jacobsen mi dice che è già qui, che mi sta aspettando al terzo. Comincio a salire frenetico, camminando sulla scala in movimento, faccio la prima tratta, guardandomi intorno, poi continuo, scivolo sopra quella successiva e quella ancora, finché arrivato in cima e lo vedo: è un uomo alto, robusto, i capelli corti sbiancati, l'aria spaesata, indossa un piumino marrone pesante, occhiali da vista neri rettangolari e sorride bonario.

Cerchiamo un luogo appartato dove conversare in pace, ma al terzo piano non c'è un angolo libero, sono tutti occupati, piccoli tavoli, panchine, gradinate bianche per ogni tipo di visitatore; allora saliamo al quarto, lo seguo mentre fila veloce, esplora gli spazi, fin quando non ne scova uno davvero ideale, di lato a una grande scaffalatura colma di volumi, un comodo divanetto fissato alla parete, dove si siede soddisfatto abbandonandosi dopo avere tolto il piumino pesante.

Il suo romanzo Gli invisibili (in uscita per Iperborea in 16 marzo) è una sorta di Malavoglia scandinavo, la storia di tre generazioni di una famiglia di pescatori che cerca di sopravvivere alla malora durante i primi decenni del XX secolo su una piccola isola, sperduta e brulla, una tra le migliaia che si trovano al largo delle coste norvegesi dello Helgeland, a sud delle Lofoten.

Lì vivono i Barrøy, che hanno lo stesso nome dell'isola - il vecchio Martin, i figli Barbro e Hans, la moglie Maria e la figlia Ingrid di quest'ultimo, in quel fazzoletto di terra minacciato da burrasche e uragani con «tre salici, quattro betulle e cinque sorbi», dove le case che abitano «dall'alto sembrano quattro dadi lanciati per caso». Raramente, per fare provviste, raggiungono Hovedøya, l'isola maggiore; gli uomini trascorrono sei mesi dell'anno a pesca alle Lofoten, i piccoli vanno a scuola nella vicina Havstein.

Un microcosmo invisibile, appunto, come la letteratura non scritta, esordisco, accomodandomi, dopo avere preso in mano il mio taccuino, ricordandogli quello che ha detto a proposito di questo libro: «Amo le storie non raccontate, adoro gli spazi bianchi sulla mappa. Mi piace colorarli». Annuisce, sorride. «Vero», dice subito dopo. Poi gli ricordo un libro islandese che forse è l'ispiratore del suo romanzo, La saga di Njal , scritto nel XIII secolo e ambientato sull'isola di Njála, che secondo lui «contiene tutto il necessario per il difficile compito di diventare un essere umano», ma - sostiene - «pure altri, Knut Hamsun, i classici russi, anche i romanzi di Gabriel García Márquez mi hanno ispirato», dice Jacobsen che continua a guardarmi e a sorridere incuriosito.

Questo luogo inventato dal vero è anche un'eredità della memoria, perché sua madre è nata a Dønna, un'isola della contea di Nordland, queste storie vengono dai racconti orali di suo nonno, padre di diciotto figli, eroe delle sue mitologie private giovanili. «Sono le storie con cui ho vissuto, ci passavo ogni estate da ragazzo, osservando la vita particolare di persone che vivono su piccole isole, ogni famiglia alle prese con una natura drammatica, in condizioni meteorologiche estreme. Questa cosa mi ha affascinato sempre molto», confessa. Dice che ha cominciato a pensare di raccontarle a metà degli anni Ottanta, quando ha fatto il pescatore da quelle parti. «Pensa, c'era una nostra vicina che aveva trascorso 53 anni della sua vita su un'isola molto piccola con la sua famiglia, in mezzo al nulla, il doppio del tempo trascorso sull'isola da Robinson Crusoe!», mi racconta ancora stupito. «Mi piace trovare storie che non appartengono alla letteratura e poi farne letteratura. La storia della vita su questa costa è stata un grande punto bianco prima che io iniziassi questo progetto. Ovviamente abbiamo avuto Johan Bojer, per esempio, che ha scritto L'ultimo vichingo , ma Bojer non ha fatto il pescatore alle Lofoten. È un vantaggio conoscere i dettagli quando si scrive».

Jacobsen è arrivato in quei posti da Oslo appena maggiorenne per lavorare come pescatore, era capace di parlare il dialetto e ha stabilito subito un forte rapporto con i vecchi marinai. Si è fermato lì 12 anni. «Spesso quando qualcuno che non ha radici nei piccoli luoghi, che viene dalla città e vuole fare il pescatore, lavorare nella foresta o fare il contadino, a volte viene un po' deriso. Quello è un duro lavoro per uomini veri e non per ragazzini che sanno solo leggere libri», dice canzonatorio ma orgoglioso di avere fatto parte di quel mondo. La gente da quelle parti comunica poco, «non si parla, non si spiega, il rapporto tra le persone non è intellettuale, è molto pratico, molto fisico». Ha scritto nel romanzo: «Un isolano è d'indole cupa, non è paralizzato dal panico ma dalla serietà».

Mentre conversiamo un ragazzo ha sfilato un libro da uno scaffale, poi si è avvicinato per ascoltare Roy. La casa di suo nonno c'è ancora da quelle parti, in alcune stagioni ci va a scrivere, «quando lavoro ai miei libri dopo ho sempre bisogno di fare qualcosa di fisico, vado a pesca, oppure faccio lavori manuali in casa, piccole riparazioni». Il romanzo è nato proprio su quelle isole, ascoltando e raccogliendo storie orali, quella che Jacobsen chiama «una pagina non scritta della storia norvegese, poco raccontata», o anche un'«invenzione dalla realtà, una combinazione tra cose vere, la mia immaginazione e la creatività», come sempre accade nella buona letteratura. «Su quelle isole c'è una tradizione solo orale, le persone non leggono libri, forse solo uno, la Bibbia; l'esperienza si trasmette di generazione in generazione a voce attraverso le storie».

Il libro è organizzato per brevi capitoli, scene e frammenti di vita, e ha una scrittura ritmica molto mirata sui fatti, sulle azioni dei personaggi. La lingua che usa (lucidamente resa nella traduzione da Maria Valeria D'Avino) è scarna, essenziale, ridotta al minimo, una scelta estetica per renderla più espressiva e lirica, perfetta per raccontare esistenze ordinarie nel tempo e nel trascorrere delle stagioni, la vita che passa, invisibili prima a sé stesse che agli altri, e colte nella continua e incessante lotta per la sopravvivenza. È molto forte il contrasto uomo-natura, tra idillio e fuga, l'inconfessabile e profondo desiderio di andare a vivere altrove, dico a Jacobsen, che è seduto al suo posto pronto a rispondere, mentre intorno c'è un passaggio continuo di visitatori, una natura drammatica, violenta, eppure c'è un legame simbiotico tra i Barrøy e l'isola, perché, scrive, «un'isola è un cosmo in miniatura, dove le stelle dormono nell'erba sotto la neve»; oppure: «Un'isola non affonda mai, anche se può tremare è salda ed eterna». Si sentono heimkjær , come si dice in lingua norvegese, «nel proprio posto», oppure anche «a casa».

Risponde convinto «sì, un cosmo in miniatura», lo dice in italiano, poi spiega: «La lingua è molto importante per me, impiego molto tempo a scegliere una parola in particolare, cercare la parola esatta, cerco una lingua concreta ma poetica». Dei suoi personaggi invece riferisce che «stanno dentro la natura, con la natura, hanno bisogno di una grande conoscenza dei venti, del mare, degli animali per sopravvivere; un norvegese di oggi non resisterebbe nemmeno due settimane in quelle condizioni; sono molto affascinato dai contrasti, l'isola può essere il luogo più bello del mondo, in estate, per esempio, ma un altro giorno in inverno, senza luce, è l'inferno, l'inferno e il paradiso nello stesso luogo».

Possiamo considerarlo un romanzo naturalistico? - azzardo. La cosa gli ricorda il romanzo nazional-romantico norvegese, che non ama, «meglio naturalistico-magico», risponde. Infatti, questo romanzo ha molti elementi visionari ma anche realistici, dove il tema del lavoro è centrale, quello della pesca, un'attività che appartiene da sempre alla storia e all'economia della Norvegia, di cui qui si racconta il sacrificio. «Era la base dell'economia norvegese», risponde Roy Jacobsen improvvisamente serio. «Il paradosso è che i guadagni di quel lavoro non sono rimasti in quelle isole, sono stati trasportati con lo stoccafisso a Bergen, oppure in Italia, in Portogallo, quel modo di vivere, il solo che avevano, finì perché era terribile. Il titolo Gli invisibili vuole anche dire che quelle persone non hanno mai avuto un posto nella nostra storia nonostante siano stati cruciali per l'economia costiera del Paese», rivendica alla fine. Come le donne, protagoniste assolute del romanzo: Maria, arrivata da un'altra isola, una donna inquieta, per sempre un occhio estraneo nella piccola comunità; la coraggiosa e folle Barbro, l'unica che fugge davvero; Ingrid, di cui nel libro s'innerva anche una storia di formazione e di apprendimento alla vita, la sola che spezza il legame simbiotico di nostalgia e che torna dall'isola maggiore e «trova Barrøy di una noia mortale (...), con il rumore monotono dell'acqua e del vento, un rumore cui un tempo nemmeno faceva caso ma che adesso la fa impazzire».

Jacobsen mi guarda, poi dice che le altre invisibili di questo libro sono proprio loro, «i contributi delle donne alla storia e all'economia hanno ricevuto poca attenzione; non solo avevano i loro compiti tradizionali nella casa con i bambini, il cibo, la cura degli anziani, gli animali domestici, ma per quasi sei mesi restavano completamente senza mariti e figli grandi. Inoltre, fabbricavano gran parte dell'attrezzatura da cui dipendevano i pescatori e preparavano le esche».

Ho letto che da ragazzo amava Robinson Crusoe, i romanzi di Jack London, ma che li riscriveva perché cercava il lieto fine, mentre questo libro è pieno di vinti, gli ricordo. «È vero, a undici anni scrivevo la mia versione di quei libri, ma questa è una saga, non è la fine, continua - dice in italiano - tornerà Ingrid, la quale ha scoperto che nessuno è un'isola, fuori c'è il mondo, nell'incontro ci si può vedere attraverso gli occhi degli altri, l'immagine di sé cambia, mentre nel prossimo libro Il mare bianco arriverà la Seconda guerra mondiale sulle coste norvegesi», poi sarà la volta de Gli occhi di Rigel e di Una barca bianca che chiuderanno la quadrilogia.

Gli invisibili è stato selezionato per il Booker International Prize e l'International Dublin Literary Award e tradotto in 27 Paesi, ma lui tiene di più al Premio Norges Fiskarlag che gli ha assegnato l'Associazione dei pescatori norvegesi. «Sono orgogliosi dei miei libri, sono il primo e anche l'unico autore a ricevere questo premio, che consiste semplicemente in un vaso di cristallo con l'immagine di un merluzzo», dice divertito.

Quando scendiamo le scale mobili e attraversiamo il pianterreno per uscire all'aperto e salutarci, il primo sole è arrivato a Oslo, l'assedio del lungo inverno, le temperature polari, le nevicate infinite sembrano terminati. Ma davanti alla Deichman Bjørvika, nel rettangolo del piazzale, una grande superficie di ghiaccio costeggiata dalle strade asfaltate, scivolano ancora con i pattini ragazzini che giocano a hockey lanciando con i bastoni ricurvi l'invisibile, velocissimo puck.