Intervista
Kader Abdolah: un autore persiano in terra d'Olanda
Intervista
Kader Abdolah: un autore persiano in terra d'Olanda
La traduttrice Elisabetta Svaluto Moreolo e Natalia Tornesello parlano del «Sentiero delle babbucce gialle»
Elisabetta Svaluto Moreolo, traduttrice ed esperta di letteratura nederlandese, dialoga con Natalia Tornesello a proposito dell'ultimo romanzo di Kader Abdolah, «Il sentiero delle babbucce gialle». Dal 2001, con l'uscita in Italia del «Viaggio delle bottiglie vuote», Elisabetta Svaluto Moreolo è diventata la «voce» del narratore iraniano, firmando la traduzione italiana di tutti i suoi romanzi tra cui gli amatissimi «Uno scià alla corte d'Europa», «La casa della moschea», «Scrittura cuneiforme» e «Un pappagallo volò sull'IJssel». Ha inoltre tradotto autori come come Tommy Wieringa, Gerbrand Bakker, Willem Jan Otten, Hugo Claus e Leon De Winter. In questo dialogo con la professoressa Tornesello, docente di Letteratura persiana all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, si esplora l'universo narrativo di Kader Abdolah, partendo dal «Sentiero delle babbucce gialle», a cui Tornesello e Svaluto hanno lavorato insieme.SVALUTO: Ci sono alcuni temi e stilemi ricorrenti nella narrativa di Kader Abdolah, che ritroviamo anche in questo romanzo: il viaggio, filo conduttore della sua prosa fin dagli esordi; il costante richiamo alla letteratura classica persiana, affermazione e memoria delle proprie radici; il gusto del narrare e la formula del «racconto cornice», modulati attraverso una prosa che avvolge e irretisce il lettore; la lingua olandese come nuova patria, che libera da censure esterne, interne e culturali; la necessità morale di testimoniare e ricordare la complessa e travagliata storia dell’Iran. Questi e altri aspetti sono stati spesso indagati, altri sono rimasti più in ombra. Cerchiamo di portarne alla luce alcuni con l’aiuto della professoressa Tornesello. Quanto c’è di «persiano» nella narrativa di Abdolah?
TORNESELLO: C'è molto di «persiano» nella sua narrativa. Non credo sia esagerato dire che la narrativa di Kader Abdolah è tutta, profondamente, persiana. Il viaggio come filo conduttore delle storie, il costante richiamo alla letteratura classica, la formula del «racconto a cornice», il bisogno di ricordare e la necessità di testimoniare sono elementi che caratterizzano l'opera di Kader e che sono centrali anche nella maggior parte della produzione letteraria dell'Iran moderno e contemporaneo. Si tratta di elementi profondamente radicati nella tradizione narrativa persiana classica. La duplice funzione del racconto, di istruire e dilettare al contempo, trova la sua piena espressione nelle storie di Kader. In ognuna delle sue opere, infatti, egli riesce a mettere insieme finzione letteraria e realtà storica in un connubio perfettamente riuscito, capace di coinvolgere il lettore e di renderlo edotto su momenti particolari della storia dell'Iran, sulle sue figure chiave, sulla ricca e variegata cultura, sugli usi e sui costumi di un paese solo apparentemente lontano. La narrazione «storica» si intreccia, come trama e ordito, con la storia personale dell'autore e dell'esule. L’opera letteraria di Kader, infatti, è prevalentemente imperniata sul tema dell’esilio nelle sue varie declinazioni, sull’essere sospesi tra due culture e tra due lingue. Tema di grande attualità, certamente, ma per Kader significa qualcosa di più: è, innanzitutto, il frutto della propria esperienza di vita trasposta in veste letteraria. L'opera, come nitido specchio, riflette l’effetto del cambiamento e delle conseguenze del «displacement» nell'autore. La scrittura diventa, così, per Kader uno strumento terapeutico, l'unico modo per sopravvivere e per ricostruirsi.
Lo stilema narrativo tutto persiano di Kader è reso palese anche dal modo in cui la narrazione è svolta, secondo un susseguirsi di racconti scaturenti l'uno dall'altro, un po' come le antiche raccolte classiche di racconti «a cornice» in cui una storia introduce quella successiva, come una catena ininterrotta di narrazioni, indipendenti ma nello stesso tempo tenute insieme da una cornice narrativa. Nel «Sentiero delle babbucce gialle» è la storia raccontata dal protagonista Sultan a fungere da cornice nella quale Kader incastona altre narrazioni, spesso brevi racconti, che traggono ispirazione dal ricco patrimonio narrativo persiano. Per fare un esempio concreto, nel Libro I («Favola») del romanzo il narratore, per descrivere il padre, ricorre a un «antico racconto» («Lo riassumo brevemente per poter descrivere meglio mio padre», scrive) inserito nella storia principale a mo' di esempio. Questa particolare architettura narrativa del romanzo è d'altra parte esplicitata da Kader fin dall'inizio, nell'esergo del libro, dove dichiara che «ogni episodio di questo libro può essere letto secondo la legge della letteratura. Perché Sultan, il narratore di questa storia, ha seguito le orme di Sherazade, la narratrice delle "Mille e una notte"». Come per Sherazade, anche per Kader il raccontare storie è benefico e terapeutico e, come sottolinea, «la letteratura è l’unica espressione artistica con cui si può raccontare una storia nella sua totalità, e perfino più che nella sua totalità. Quando scrivi, scrivi te stesso, diventi un testo, diventi il racconto» (p. 36).
S: Come traduttrice, ritrovo una musicalità e un ritmo costanti nella sua prosa, legati alla predilezione per le frasi brevi, per una sintassi semplice, paratattica (mutuata anche dall’olandese), e un lessico altrettanto essenziale: ritmo, musicalità ed essenzialità hanno un effetto evocativo e lasciano spazio al silenzio, cui la traduzione italiana deve, a sua volta, lasciare spazio. Quanto influiscono in queste scelte linguistiche la sua lingua madre e la sua cultura?
T: Indubbiamente molto. Lo stile delle sue storie e la maniera di narrarle ricorda molto, come dicevo prima, le storie di antica tradizione persiana. Le classiche «hekayat», i racconti brevi delle grandi raccolte della tradizione persiana, caratterizzate appunto da sintassi semplice e frasi brevi, sono lo strumento narrativo prediletto anche da Kader. La conoscenza e l'apprezzamento delle storie delle famose raccolte della tradizione letteraria persiana, tra cui «Le mille e una notte», «Kalila e Dimna», «Marzban-nama», «Bakhtiayar-nama», «Tuti-nama», ecc. – solo per citarne alcune – come pure le hekayat del celebre poeta del XIII secolo Sa'di Shirazi, modello inimitabile di semplicità dello stile, hanno certamente esercitato un'influenza notevole su Kader. Un caso emblematico nella produzione di Kader è rappresentato, per esempio, dal romanzo «Uno scià alla corte d'Europa» (2016, Iperborea 2018), costituito da un susseguirsi di storie, concatenate benché indipendenti, che l'autore non a caso intitola hekayat. Inoltre, le storie delle «Mille e una notte», che rappresentano parte di sé e della sua cultura, come l'autore ha ribadito in più occasioni, hanno indubbiamente dato un'impronta particolarmente «persiana» al suo modo di scrivere.
Nelle scelte dello scrittore ha indubbiamente influito anche l'aver dovuto fare i conti con una lingua che egli ha dovuto imparare e che solo con perseveranza, determinazione, pazienza e costanza ha saputo padroneggiare in maniera eccellente. L'evoluzione linguistica di Kader è, d'altra parte, ben evidente – anche in traduzione italiana – se si confronta la scrittura del suo primo romanzo («Il viaggio delle bottiglie vuote», 1997, Iperborea 2001) con quella delle opere successive e, in particolare, con «Il corvo» (2011, Iperborea 2013). Quest'ultima, a mio modo di vedere, rappresenta la «fase matura» del romanzo d'esordio di Kader in olandese.
È noto l’amore di Abdolah per la poesia, che insegue e cita spesso, rifacendosi ad autori persiani, iraniani e nederlandofoni. Anche questo fa di lui, che pure è scrittore a tutto tondo, uno scrittore «meticcio», frutto di una felice ibridazione tra due culture?
Il richiamare versi di autori classici nelle opere letterarie persiane, di tutti i tempi, è un uso ricorrente che fa parte della «iraniyyat» o, per dirla in inglese, della «iranianness». Nel comporre versi, un buon poeta classico era colui che attingeva ai versi dei grandi predecessori da lui conosciuti a memoria. I grandi poeti del passato rappresentavano, e rappresentano tuttora, un modello non solo letterario e nei loro confronti c'è rispetto e venerazione. Per meglio illustrare il concetto, ricorro a quanto scrive lo stesso Kader nel suo romanzo: «Mi sono portato dietro un’usanza della mia cultura. Per i persiani la poesia è come il vino per i francesi: se ne ubriacano. Leggo spesso poesie olandesi con l’aiuto del dizionario. È un’occupazione piacevole. Scelgo una poesia e la leggo, la studio fino a quando mi scalda, proprio come un bicchiere di buon vino sorseggiato con calma.»
S: Un tema che mi persuade ogni volta nei romanzi di Kader Abdolah è quello dell’accettazione del destino: un destino che i protagonisti delle sue storie non subiscono mai passivamente, o con rancorosa rassegnazione, ma assecondano con indomita vitalità. In che misura questo atteggiamento è un portato della cultura orientale e persiana in particolare?
T: L'immutabilità del destino è un concetto che si direbbe insito nel termine persiano che lo designa, «sarnevesht». Altri termini con lo stesso significato sono «taqdir» e «bakht». Sarnevesht, però, è secondo me quello più rappresentativo. Si compone di due elementi: «sar», che vuol dire «testa, capo, principio, inizio» e «nevesht», tema del passato del verbo scrivere, «scritto». Letteralmente sarnevesht significa «scritto dall'inizio, segnato dal principio», indicando perciò qualcosa di predestinato e di immutabile.
Nonostante la sua immutabilità, però, il destino non è mai subito passivamente o accettato con rassegnazione. Kader Abdolah, così come i protagonisti dei suoi romanzi, è alla continua ricerca della propria identità. È, in buona sostanza, in una continua analisi del suo sarnevesht. Il viaggio, tema centrale in quasi tutti i romanzi dell'autore, sembra essere l'emblema del destino: le tante inquietudini e, nello stesso tempo, la solida determinazione che accompagnano il viaggio non sono altro che la forte volontà di dare un proprio apporto al percorso del destino che conduce, nel caso di Kader, alla ricerca di un nuovo sé e di una nuova identità. Kader, come i protagonisti dei suoi romanzi, mai si arrende al destino. Ciò è evidente fin dal suo romanzo d'esordio, dove scrive: «Non volevo rimanere passivo, volevo dare il mio contributo al corso degli eventi.» Lo ha senza dubbio dato Kader questo contributo, e continua a darlo, avvalendosi del potente strumento del racconto. Come egli scrive nel suo ultimo romanzo, «con carta e penna potevo essere così autenticamente me stesso. [...] Solo ora mi rendo conto che posso essere me stesso solo sulla carta. Sono il mio testo. Questo testo».
S: Potremmo intrattenerci ancora a lungo parlando del ruolo dell’amore, delle donne e dell’incontro imprescindibile con l’altro per conoscere e inverare se stessi, autentico pilastro tematico di questo romanzo, ma mi limito a soddisfare una curiosità, che forse sarà anche quella di chi ha letto o leggerà questo libro: co-protagonista del racconto è il «jinn» che, dice Abdolah, «vive dentro e accanto a ciascuno di noi». In sintesi, se possibile: quale ruolo ha il jinn nella cultura e nella letteratura persiana e quali sono le sue affinità e differenze rispetto al genio a noi tramandato dalla latinità?
T: I jinn sono parte integrante della cultura tradizionale persiana. Kader Abdolah in più occasioni ha affermato che «i jinn sono parte di noi», facendo comprendere quanto la sua cultura sia permeata e popolata da questi esseri sovrannaturali.
Rispetto al genio della latinità, che si caratterizza come benevolo custode delle sorti degli individui, il jinn della tradizione arabo-islamica è un'entità soprannaturale molto più potente, il cui carattere oscilla, a seconda dei casi, tra il maligno e il benevolo. Si tratterebbe di esseri che, secondo l'Islam, avrebbero accompagnato e ostacolato il cammino dell'uomo fin dai primi passi sulla Terra. Forse divinità decadute, «relitti dell'antica fede politeistica e polidemonica che aveva dominato le culture centro-occidentali della Penisola Arabica fino all'avvento dell'Islam» (come scrive in un suo stimolante articolo l'slamista e arabista Claudio Lo Jacono), i jinn sono descritti in molte tradizioni classiche come caratterizzati da accentuata ferocia e malignità. Il termine jinn è presente nel Corano e i lessicografi arabi classici riportano che il profeta aveva diviso i jinn in tre classi: quelli che hanno le ali e fluttuano nell'aria, quelli che somigliano a serpenti e cani e quelli che si muovono continuamente. Si ritiene, inoltre, che questi esseri soprannaturali siano stati creati dal fuoco senza fumo e che vivano invisibilmente accanto agli esseri visibili.
Secondo alcune tradizioni questi esseri dimorano nei pozzi e negli «hammam». Secondo altre tradizioni i jinn dimorerebbero sul Monte Qaf (lo stesso dove dimora il «Simorgh»).
Secondo una diffusa credenza, non solo islamica, un totale potere sui jinn sarebbe stato esercitato da Salomone (alla qual cosa Kader sembra alludere nel romanzo quando scrive che Salomone «fece infilare i jinn in grandi vasi di terracotta che chiuse con il suo anello a sigillo»).
La cultura islamica riconosce l'esistenza di jinn buoni e in condizione di favorire gli esseri umani. Ciò deriva, probabilmente, dalla credenza che alcuni jinn si sarebbero convertiti all'Islam dopo aver ascoltato le parole del Profeta. Si dice, infatti, che Maometto ebbe due jinn, di cui uno egli convertì all'Islam e divenne così una sorta di angelo custode.
I jinn della tradizione persiana hanno sia elementi di derivazione islamica sia elementi che derivano da tradizioni indigene pre-islamiche. Le prime fonti persiane usano il termine arabo jinn e quello persiano «pari» in modo interscambiabile. La definizione del termine jinn nel Loghatnameh (dizionario enciclopedico) di Dehkhoda è «pari va div», ossia «fata e demone», dunque spirito benigno e spirito maligno nello stesso tempo.
Nella Persia pre-islamica, le credenze sui jinn si sono cristallizzate nell'opposizione primordiale di luce e tenebre, che ha costituito la base delle prime religioni persiane. Da questo conflitto sono emersi i «div» come i jinn dell'oscurità e le «pari» come i jinn della luce.
Si crede, inoltre, che ogni essere umano abbia un gemello tra i jinn, un «hamzad», nato nello stesso momento. Esso può essere uno spirito benigno o uno spirito maligno (cioè pari o div), e questo è determinante per le sorti dell'essere umano suo alter ego. Se il hamzad è un jinn positivo (il jinn della luce), il destino del suo gemello umano sarà anch'esso positivo.
Kader, come ha dichiarato in diverse interviste, è cresciuto accompagnato dai racconti delle «Mille e una notte» e dai jinn che popolano tali racconti. Queste storie sono parte di sé e della sua cultura, così come lo sono i jinn. I racconti delle «Mille e una notte» sono, infatti, il luogo ideale dove trovare i jinn, nelle varie apparizioni e manifestazioni. Uno di questi strani esseri è il cosiddetto «vecchio del mare», presente in uno dei racconti relativo ai viaggi di Sindbad il marinaio, e descritto in numerose fonti persiane classiche, dove è chiamato in vari modi. Il jinn co-protagonista del suo ultimo romanzo è una sorta di voce interiore, il suo doppio, ma è anche la voce del destino. In una recente intervista Kader ha dichiarato: «Io ho messo l'essenza delle "Mille e una notte" nella lingua olandese e i jinn nella cultura olandese; loro [gli olandesi] non credevano nel destino ma io ho dimostrato che il destino esiste, non c'è altro modo, noi diventiamo noi stessi, non possiamo essere nient'altro.»