Approfondimento

Siamo tutti colpevoli per ciò che (non) abbiamo fatto

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Siamo tutti colpevoli per ciò che (non) abbiamo fatto

Data: 12 Ottobre 2023

In occasione di Torino Spiritualità, Jón Kalman Stefánsson firma un testo inedito, pubblicato su Tuttolibri il 30/09/23 (trad. di Silvia Cosimini).

Arriva l'autunno qui nell'emisfero boreale e le stelle fanno ritorno in cielo dopo essere state abbagliate dalla luce dell'estate; i colori autunnali trasformano il mondo in una poesia bella e malinconica e Lana del Rey canta, Life is beautiful but you don't have a clue. Ed è così: la vita è bella, sul serio. Certo comporta anche minacce, ombre scure, però abbiamo la tendenza a dimenticarci di quanto sia straordinaria, questa vita. E la quotidianità. Ce ne dimentichiamo, oppure non ce ne rendiamo conto. Prendiamo la vita, la quotidianità, come una cosa ovvia e scontata. Purtroppo nei prossimi anni non sarà più così. Che ci piaccia o meno.

Quando mi sono messo a scrivere questo articolo, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata un manifesto di propaganda stampato oltre cent'anni fa in Inghilterra durante la Prima guerra mondiale, quando si cercava di mobilitare tutti verso un unico scopo: vincere la guerra. Si insisteva pesantemente e con ogni mezzo affinché tutti dessero il proprio contributo alla patria nella Great War , la Grande guerra. Il manifesto che mi è venuto in mente rappresenta un uomo, probabilmente sulla trentina, seduto su una comoda poltrona nella sua casa accogliente e con la figlia in grembo. La bambina ha dei nastri nei capelli, un abito azzurro, calzini bianchi e un libro aperto sulle ginocchia; il fratello più piccolo gioca con i soldatini sul tappeto blu. La figlia fissa il padre in volto e gli chiede: Daddy, what did you do in the Great War? Il padre guarda oltre, lo sguardo è puntato verso l'osservatore - è evidente che è in imbarazzo, ci rendiamo conto che non ha fatto il suo dovere; non ha combattuto per la patria, per il futuro, per i suoi figli. Quel manifesto ci mostra un uomo che si trova di fronte a una resa dei conti, accusato dai propri figli; ci mostra il momento in cui, nel caldo abbraccio della casa, il luogo che più sa proteggerci dalle batoste della vita, quell'uomo comprende che non può sottrarsi alle sue colpe. Dove posso andare, pensa, come Francesco Petrarca in una poesia di settecento anni fa:
Quo fugiam? quid agam, si nec maria alta nec Alpes / Nec longe valuere more?
Dove posso fuggire? Che cosa posso fare se i mari non sono abbastanza profondi né le vette delle Alpi abbastanza alte?
Il nemico peggiore: i nostri pensieri?
La cosa più difficile di tutte è fuggire da sé stessi. La cosa più difficile è affrontare ciò che abbiamo fatto. E ciò che non abbiamo fatto.
Come abbiamo potuto, scrive la poetessa americana premio Nobel, Louise Glück:
How did we do so much damage, merely sitting and watching?
Come abbiamo potuto causare tanta distruzione solo restando seduti inermi, a guardare?

Ultimamente ho letto un libro di grande effetto, Il secolo nomade. L'autrice, Gaia Vince, parla del riscaldamento che il nostro pianeta sta affrontando, parla di quali conseguenze potrà generare, analizza come sono cambiate le cose e soprattutto che cosa possiamo e dobbiamo fare se non vogliamo perdere il pianeta in cui abitiamo; se vogliamo perpetuare la nostra civiltà. Un libro difficile, angosciante, ma prima di tutto stimolante e pieno di empatia. Un libro che apre gli occhi al lettore, gli cambia addirittura la mente. L'avevo iniziato sul finire dell'inverno per poi abbandonarlo, cose che succedono; qualcosa si mette in mezzo, la quotidianità, altri libri; ma dopo è arrivata l'estate con le temperature estreme, la siccità asfissiante, gli incendi distruttivi, i chicchi di grandine grandi come palle da tennis; e guarda caso, quei fenomeni si sono verificati quasi senza eccezioni nei luoghi che Gaia Vince aveva indicato.
Così ho ripreso in mano il libro.

Appena ho ripreso la lettura mi è tornato in mente quel manifesto e ho capito l'evidenza, ovvero che tutti noi siamo quell'uomo in poltrona, con la figlia - il futuro - sulle ginocchia; in qualsiasi angolo di mondo abitiamo, qualsiasi sia il genere, la fede o la nazione a cui apparteniamo: siamo tutti lui. Possiamo discutere all'infinito su chi sia il responsabile del riscaldamento globale, ma adesso ormai è solo un dettaglio, o un compito per gli storici del futuro; il crimine maggiore di ogni essere umano e di ogni nazione, il più imperdonabile, è starcene seduti a non fare niente.

Magari, nella speranza di salvarci dai nostri stessi errori, dovremmo concepire dei manifesti, che siano digitali o tradizionali, distribuirli per le città di tutto il mondo, lungo le autostrade, dove a ciascun individuo, padre, madre, nonna, nonno, zia, zio venga chiesto: che cosa fai, tu, nella grande guerra contro il riscaldamento globale; che cosa fai, tu, per salvare la civiltà?
Siamo in guerra, prendiamone atto; una guerra in cui il peggior nemico è la nostra mentalità.
Se non reagiamo al più presto - ieri, al massimo, perché domani probabilmente sarà già tardi - e ci accontentiamo di stare a guardare, di rimanere seduti, la civiltà andrà verso la distruzione, e con lei tutto quello che abbiamo a cuore - che cosa aspettiamo?

Perché sicuramente esiste un metodo, ed è senz'altro chiaro che dobbiamo sacrificare qualcosa per raggiungere dei risultati che siano decisivi. Sacrificare qualcosa, o cambiare stile di vita. Del resto dovrebbe essere preferibile fare dei sacrifici oggi, piuttosto che perdere tutto entro dieci, vent'anni. Alcuni metodi, invece, sono sicuramente sbagliati, i metodi dei populisti, degli apostoli del liberismo, del nazionalismo, i metodi di chi vuole dividere il genere umano tra «noi» e «gli altri» e di chi ritiene che la soluzione migliore sia alzare muri insormontabili sui propri confini: muri di norme, di filo spinato e di cemento. Quelli sono i nemici del genere umano. Le guardie di frontiera in Arabia Saudita stanno uccidendo centinaia di profughi a sangue freddo, per lo più donne e bambini, e mutilano chi riesce a varcare il confine; ci sono politici che rinchiudono tremila profughi in chiatte sovraffollate; che esultano sentendo che dei migranti sono annegati nel Mediterraneo. Se ci lasciamo ammaliare dal canto di quelle sirene perdiamo la civiltà, la compassione, perdiamo la dignità; perdiamo l'umanità. Perdiamo ciò che giustifica la nostra permanenza su questo pianeta acciaccato.

L'impietosa verità della poesia

Non lo nego, scrisse il poeta islandese Hannes Sigfússon verso la metà del secolo scorso, che anch'io volevo godermi una vita più semplice. Sulla poesia è stato detto e scritto di tutto. Sul suo ruolo e su quello che ha da dire, o se qualcosa da dire ce l'abbia davvero. Sono nate scuole e movimenti, dadaisti, surrealisti, imagisti, tutti hanno elaborato proclami su come si debba scrivere e comporre, come se il ruolo della poesia, il messaggio della prosa, dovessero essere lampanti. Durante gli anni in cui mi facevo una discreta formazione qui in Islanda, all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, una specie di tardo-modernismo (in cui si inseriva un po' di postmodernismo e talvolta anche della poesia concreta) stava soppiantando il neorealismo, dove l'ordine del giorno prevedeva che i poeti dovessero trattare questioni sociali e dovessero attenersi a uno stile realista affinché il messaggio non venisse travisato - dietro tale pretesa echeggiava la secolare convinzione che la poesia dovesse rispecchiare la realtà.
Probabilmente era sfuggita una questione fondamentale: che cos'è la realtà?
È piuttosto ovvio che le risposte a questa domanda sarebbero state talmente articolate e complesse da mandare in frantumi lo specchio, e ciascun frammento avrebbe riflettuto la realtà a modo suo.

Avere pretese nei confronti della letteratura e definirne ruoli e messaggi va bene, si può; ci saranno sempre dei periodi in cui sentiamo di averne molto più bisogno del solito. Alla letteratura invece non importa proprio un bel niente di quello che ne pensiamo noi. È come un gatto, fa i propri comodi, non appartiene a nessuno, non si fida di nessuno se non di sé stessa, e la definizione che più si approssima a descriverla probabilmente è questa: noi non sortiamo alcun effetto sulla letteratura, è la letteratura che sortisce effetti su di noi.
Ed ecco che abbiamo il concetto chiave, il nocciolo, il fondamento, l'essenziale, ciò che rende la letteratura imperdibile, straordinaria, pericolosa, urgente: l'effetto.

Anch'io volevo godermi una vita più semplice; probabilmente è un desiderio che abbiamo in molti.
Avere una casa, dei figli, vederli crescere in un ambiente sicuro, dar loro la possibilità di istruirsi; vedere i propri genitori invecchiare bene e poter contare su un buon sistema sanitario che li sostenga quando gli anni appesantiscono il passo. Poter bere un caffè, un bicchiere di vino, una birra fuori in piazza senza dover temere un folle armato di fucile o un attacco missilistico, senza dover temere un'alluvione, un tornado, temperature terrificanti. Anch'io volevo godermi una vita più semplice; o con le parole di Jorge Luis Borges:
Agradecer el ajedrez y jazmín, los tigres y el hexámetro
Apprezzare la scacchiera e il gelsomino, le tigri e l'esametro.

Ai poeti e agli autori non vanno mai imposte regole su come e cosa scrivere; anche per loro però vale quello che vale per tutti gli altri abitanti di questo pianeta: nessuno può più starsene seduto con le mani in mano. Devono, tutti, ciascuno a suo modo, sfruttare il potere che la letteratura ha di sortire effetti. Dobbiamo vincere il buio con la nostra luce, nessuno lo farà al posto nostro, scrisse un accanito bevitore, il poeta americano Charles Bukowski; essere riconoscenti per poter giocare a scacchi su una piazza piena di sole; discutere di esametri mentre qualcuno suona Lana del Rey, che ci ricorda la bellezza della vita; sapere che i propri figli sono a scuola, non vedere l'ora di invitare i propri genitori a pranzo; giocare con il proprio cane in un parco pubblico vicino; e che esista ancora un parco del genere. Il futuro dipende da noi. Siamo noi, soltanto noi, che possiamo salvarci dai nostri stessi errori, dalle azioni sbagliate, dall'egoismo, dall'inerzia, dal torpore. Nessuno lo farà al posto nostro. E che cosa dire a chi non se ne rende conto, o peggio, a chi nega l'evidenza, i fatti drammatici che ormai si presentano davanti agli occhi di tutti?
Un connazionale della Glück e di Bukowski, il poeta Franz Wright, ha condensato per noi la risposta in due righe. Densa, e incisa a fondo nell'impietosa verità della poesia:
If you are not disturbed
there is something seriously wrong with you, I'm sorry.